In piena crisi economica, quando il coltello
è ormai arrivato all'osso, possiamo osservare più che mai i veri tratti della
società progressista che ci circonda. Queste osservazioni non partono da
considerazioni cospirazioniste a priori ma da una limpida analisi delle
evoluzioni socio-economiche e politiche degli ultimi anni che, alla stregua di
un giocatore di scacchi che analizza i movimenti dell'avversario, ci indicano
la direzione verso cui ci si muove. In tal modo constatiamo come il nuovo
obiettivo della classe neo-dominante è quello di realizzare un esproprio di
dimensioni mai avvenute prima, l'ennesimo a partire dal 1789, ma questa volta
rivolto contro i salariati e le categorie medie, figliastre dello stato
assistenziale.
L'obiettivo non-economico di primo piano è altresì quello di
trasformare l'uomo in un precario a vita. Andando più in profondità, oltre alla
tendenza di creare valore esclusivamente su base finanziaria, sul piano
demografico ed ecologico l'obiettivo è quello di ridurre nei numeri, una
umanità che supera le esigenze neocapitaliste. Di gran lunga, ad osservare
bene, il fenomeno più preoccupante è il processo di induzione alla autocolpevolizzazione
delle vittime, le quali considerando erroneamente una propria responsabilità
individuale i problemi di natura sistemica, collettiva, politica, di fronte
agli espropri subiti, tendono a auto-sopprimersi. Gli effetti appena descritti hanno trasformato
l'uomo-lavoratore precario in una macchina produttrice senza un centro e senza
la certezza economica del domani. Non è casuale quindi che la parola lavoro che
deriva dal latino labor indicava prima del Rinascimento la sofferenza. Infatti
una volta il lavoro degli artigiani si esprimeva attraverso la parola “opera”
ed era il risultato di un rapporto quasi padre-figlio tra il maestro e
l'allievo che imparava la tecnica ma anche i valori morali e religiosi.
Nell'opera ultimata l'artigiano si rispecchiava e diventava immortale. Oggi ci
possiamo rendere conto come attraverso il “lavoro” non si intende più
un'attività creatrice da tramandare e attraverso cui prodotto finale l'uomo
continua a vivere, ma indica, come spirito e modalità, produzione in serie,
anonimato, stress, sofferenza, quello che pressappoco caratterizzava il lavoro
dello schiavo in antichità. L'aspetto ancora più sbalorditivo, è la concezione
moderna del lavoro come semplice pretesto di profitto o di una busta paga
prescindendo da qualsiasi utilità per la comunità.
In questo contesto ci si può rendere conto
dell'attualità dell'esempio legionario attraverso la cosidettà economia
legionaria. Essa ambisce, tramite la creazione di una rete economica
parallela, alla sottrazione di spazio utile alla sovversione, riportando i
valori tradizionali nelle attività commerciali offrendo così anche una
sicurezza economica a coloro che militano per l'Idea. In questo modo qualsiasi
gesto economico diventa anche un gesto politico: il denaro ritorna, dalla sua
funzione attuale di fine, a quella che gli spetta, di mezzo; il lavoro, oltre a
riconquistare il suo valore originare attraverso cui l'uomo si nobilita,
ridiventa anche un'opportunità di alzare un mattone per la grandezza della
propria comunità che acquista così l’organicità che la liberal-democrazia di
stampo capitalistico, ha trasformato in meccanicità senza anima.
Nico
di Ferro
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