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sabato 19 ottobre 2013

Il Cosmo, il primo "libro" di Dio

Per quanto riguarda il cristianesimo delle società industriali, [..] esso ha ormai perduto i valori cosmici che possedeva ancora nel Medio Evo. Benché il cristianesimo urbano non sia necessariamente "degradato" o "inferiore", la sensibilità religiosa delle popolazioni urbane ne è gravemente depauperata. La loro esperienza religiosa non ha più alcuna "apertura" verso il Cosmo. E' un'esperienza  strettamente privata; la salvezza è un problema tra l'uomo e il suo Dio;  [..] in questi rapporti: uomo-Dio-Storia, il Cosmo non trova alcun posto. Ciò fa ritenere che, anche per un cristiano autentico, il Mondo non è più considerato opera di Dio.

Mircea Eliade, Sacro e profano

giovedì 17 ottobre 2013

Athos. L'atletica e il risveglio interiore dell'uomo moderno.


Reperibile presso il Centro Studi Aurhelio

Oggi le attività atletiche e lo sport in genere sono ridotte ad essere essenzialmente una modalità “per tenersi in forma”, uno strumento per apparire, oppure designato alla ricerca di record tanto effimeri quanto la presunta “gloria” momentanea dei cosiddetti “campioni” che li realizzano. L’attività sportiva competitiva è dominata dal business, dalla corruzione fisica e morale, dal gioco d’azzardo che vi ruota intorno e dalla pressoché totale mancanza di spirito etico.
Lo scritto che segue offre una significativa e sostanziale rettificazione nei confronti della materia trattata. Offre spunti inconsueti di analisi e riflessione, conduce il lettore ad una dimensione di maggior prossimità con lo spirito autentico delle attività atletiche. Indica una effettiva possibilità di recupero a chi pratica le diverse discipline e voglia superarne il piano di semplice potenziamento fisico.
L’autore rievoca la dimensione olimpica dell’atletica nella civiltà classica greco-romana dove, oltre allo sviluppo del corpo, dei nervi, dei muscoli, il dispiegamento dell’azione atletica, attuata in modo spersonalizzato e svincolato dal risultato finale, permetteva il contatto anche con talune forza spirituali (potendosi così determinare possibilità di tipo iniziatico).
Dall’epoca classica a quella moderna non tutto è stato perduto e, seppur ridimensionate, le possibilità di un risveglio interiore permangono.
Le tracce al riguardo sono indagate con efficacia in questo scritto, contributo importante per coloro che intendano, per il tramite della pratica atletica, perseguire una finalità “interiore” che tenga conto delle contingenze dell’epoca in cui viviamo, senza da esse esserne annichilito.

martedì 15 ottobre 2013

Intervista con lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco

Il “luogo”, inteso come terra natale, riveste nella produzione letteraria del giornalista e scrittore Pietrangelo Buttafuoco particolare importanza. Gli influssi storico-culturali, le tradizioni, i riti religiosi e sociali della Sicilia caratterizzano i suoi scritti, nutrono la vena dell’ immaginazione, la sua antimodernità.

Il “luogo” travalica perciò il significato di mero dato geografico per diventare “topos” in senso letterario. E non solo.

Questo elemento condiziona lo stile dell’autore, lo rende fastoso, quasi barocco, simile alle fiorite e panciute balaustre di ferro battuto dei balconi siciliani. Il “luogo” emerge prepotente nel gusto dell’iperbole, nelle citazioni dotte, nella capacità dello scrittore di narrare in modo vivo, ideografico, la processione del Venerdì di Pasqua a Cordoba e nella sua Leonforte.

Del resto Buttafuoco si trova a suo agio tra Roma, Atene e Gerusalemme. La sua heimat è una patria ideale, elettiva, punto di partenza di un percorso in cui si stratificano ricordi, affanni e nostalgie comuni ai popoli dell’Europa meridionale. Buttafuoco insomma è un mediterraneo “doc”, dalla penna sanguigna e generosa. Sensibile alle ragioni dei vinti, perciò inattuale nell’accezione nobile di questo termine.

Lo si percepisce quando difende con passione le sue idee contro la “tirannia del tacere” che domina i media e la cultura italiani. Oppure quando sberleffa le contraddizioni della nostra società e l’ipocrisia di un Occidente che, incapace di comprendere il sacro, ha dichiarato guerra alla religione, relegandola nei salotti televisivi, riducendola a materia di competenza dei tribunali.

Autore e commentatore televisivo, nei panni dell’opinionista Buttafuoco collabora con vari periodici della carta stampata. E’ arguto, tagliente, sempre garbato, virtù questa divenuta – ahimè - rara ai giorni nostri, sacrificati alla volgarità e alla banalità. Nei suoi interventi è erudito, scoppiettante, talvolta irrefrenabile. Così come promette il suo cognome che, con un po’ di immaginazione, richiama alla mente i vulcani della sua isola o certi personaggi della Commedia dell’Arte, dai nomi dirompenti come Matamoros e Capitan Spaventa. Nomen est omen ....direbbe qualcuno.

Cominciano quindi questa conversazione, partendo proprio da lì dove “tutto ebbe inizio”, dall’assolata terra dello scrittore.

Dott. Buttafuoco, Lei è nato al centro della Sicilia, isola posta nel cuore del nostro Mediterraneo, mare interno e, a sua volta, congiunzione tra Africa e continente eurasiatico. Una posizione privilegiata per una terra che, nonostante la sua dimensione insulare, è stata nei secoli crocevia fondamentale delle civiltà. Come valuta questa eredità storica e culturale?  

 "Come una benedizione innanzitutto. E poi un privilegio, quindi un vantaggio. La Sicilia è il luogo dove tutto il mondo si dà appuntamento. Non è solo un crocevia, è anche la goccia dove tutte le culture portano la eco degli oceani. Prova ne sia che la corrente spirituale mediterranea solo in Sicilia ha saputo far trasmigrare il nitore del pensiero dell'origine fin dentro il sentimento popolare: da Iside al culto delle sante vergini Agata, Lucia e Rosalia, da Ashurà fino alle processioni della Settimana Santa dove è più chiara l'impronta islamica. Sono i musulmani, infatti, più ancora delle altre civiltà, ad aver dato un'impronta alla mia terra. Ho fatto di proposito l'esempio del Venerdì Santo perchè in quella notte il modo di pregare, la commozione e la profondità del dolore rimanda ad un sentimento che ci fu affinato dai nostri antenati saraceni".

L’emozione generata dai riti del Venerdì Santo a Cordoba e nella sua Leonforte, così come narrati nel suo libro “Cabaret Voltaire”, rammenta infatti al lettore musulmano le celebrazioni di Ashurà, per il martirio dell’Imam Husayn (as). Un pathos ed una sensibilità comune legano quindi la cattolica Europa mediterranea al mondo musulmano?  

 "Credo che il pathos derivi da un istinto, una ricerca del sacro che – a livello popolare – porta la gente a rivolgersi ai segni. I devoti di san Padre Pio sono molto più numerosi di quelli che si presentano ai casting del Grande Fratello ma gli spettatori di questo show sono in grado di avvelenare il sentire popolare. Quelle affinità tra l'antica origine islamica di Sicilia e il cattolicesimo mediterraneo, giusto quelle che nelle processioni della Settima Santa svegliano il ricordo di Ashurà, sono visibili solo agli occhi di chi studia i residui di quella memoria. I musulmani sono quelli che hanno insegnato non solo come preparare la cassata e la cotognata, ma quelli che hanno lasciato un'impronta sulla preghiera. Tutto ciò è chiaro per chi ha orecchie e occhi per intendere ma adesso tutto volge ad un indistinto catalogo folcloristico. Vorrei sottolineare il livello popolare perché malgrado l'aggressione culturale delle elite, nel sentire del popolo c'è un retaggio suggerito dal sangue. Certamente la secolarizzazione borghese ha allontanato i popoli del Mediterraneo dalla propria radice religiosa, sicuramente la forma politica della democrazia, al sacro, sigillo di un'istituzione organica, ha sostituito una generica adesione alla morale corrente, ma il popolo serba sempre una sorpresa: è permeabile ai disegni della Misericordia. Non è un caso che il grido ritmato di ogni ora profonda della Passione è tutto spiegato nella parola mi-se-ri-cor-dia".

Nostalgia del sacro, radici culturali e futuro della nostra Europa. Lei scrive che “il soldato di Pindaro è fratello al saraceno” e cita una frase di Goethe: “il destino d’Europa è l’Islam temperato dai pomeriggi di Grecia”.

 "Quando sento parlare della radice cristiana d'Europa non riesco a trattenere il fastidio, specie perché quanti se ne proclamano alfieri della cristianità, hanno solo un'idea strumentale, per nulla saldata ad un riconoscimento sacrale. Detto questo: le uniche radici legittime dell'Europa sono quelle che rimandano alla duplice madre greco-latina e se il cattolicesimo ha dimenticato tutto ciò sposando adesso un destino di civilizzazione borghese (Dio ce ne scampi: i teo-con) grazie a Dio questa progenitura non l'ha smarrita la chiesa Ortodossa, né l'Islam sciita che ha saputo trovare nel pensiero dell'origine dei popoli quel lievito che vivifica la Rivelazione. Non è un caso che i teologi musulmani riconoscano in Platone, per fare un esempio, un precursore dell'avvicinamento a Dio. Ritengo che il soldato di Pindaro, infine, sia fratello al saraceno perché accanto alla teoretica, c'è un'etica dello stile. L'Islam che nei secoli ha di volta in volta incontrato i popoli - dagli arabi agli africani, dai persiani agli ottomani, dagli indiani all'intero continente euro-asiatico – adesso è pronto a diventare intimamente europeo, così come aveva vagheggiato Goethe. E a ciò si arriverà facendo svegliare a nuovo fulgore il tesoro che promana da Roma e da Atene".

Queste considerazioni sembrano aver ispirato il suo secondo romanzo: “l’Ultima del diavolo”. Un libro dal sapore faustiano, ricco di allegorie, con una trama originale e raffinatissima. E’ stato definito - forse in maniera frettolosa e impropria - un thriller teologico. Si tratta solo di questo?  

 “Decisamente frettolosa la definizione di thriller teologico per L'Ultima del Diavolo. Credo di aver adoperato, al contrario, uno schema senza suspence perché ciò che riguarda la teologia non determina un genere letterario, piuttosto la necessità del raccontare per come la tradizione ha stabilito. E per come i personaggi stessi del libro impongono alle pagine. Shaitan, poi, non è tema di horror, è una presenza che l'Occidente ha messo tra parentesi ma chi ha sensibilità religiosa sa bene quanto sia urgente svelarne le trame e con “l'Ultima del Diavolo” ho ripercorso una strada segnata da altri più autorevoli di me: da Bulgakov a Dante, magari anche il fumetto, ma certamente provando a fare quello che qualcuno, volendo fare una critica, ha involontariamente dato al mio libro un lusinghiero complimento: il primo romanzo musulmano in lingua italiana. Ho cercato, infatti, di scrivere il libro con gli occhi della sensibilità islamica.“

In effetti questo libro ha come fulcro eventi riguardanti l’origine dell’Islam: l’incontro del monaco Bahira col giovane Mohammad, l’unione della tradizione cristiana e musulmana nella figura dell’Imam Mahdi. Gesù e Mohammad visti come due raggi della stessa luce. Ma non solo, tra i personaggi del romanzo compaiono anche sufi, prelati cattolici e ortodossi e innumerevoli sono i richiami simbolici, storici, forse geopolitici. Per dirla col poeta Alighieri, anche lui citato nel libro, quali messaggi Buttafuoco nasconde “sotto ‘l velame de li versi strani”?

 “Messaggi proprio no. A far la battuta io appartengo a quella scuola secondo la quale chi deve mandare messaggi scelga almeno la forma del telegramma: essenziale, tecnica e concisa comunicazione. Scherzi a parte: so di aver lavorato prendendo a prestito una materia alta, ovvero la Tradizione. E non nel senso del sincretismo laddove accomuno l'eredità del cattolicesimo popolare con l'Islam, piuttosto nel senso della Tradizione quale fonte unica: raggi della stessa luce appunto. Sono convinto del fatto che la Verità abbia un ovvio esercizio di dissimulazione incontro alle diverse epoche e ai destini dei popoli: ogni regno ha la propria religio. La vicenda dell'Occidente costretto all'oblio del Sacro (se non all'abiura del Sacro nella sua totalità), invece, ci tocca profondamente e solo una religione universale e vitale, erede della radice greco-romana qual è l'Islam, nella sua declinazione sciita, può caricarsi la responsabilità di tenere viva la speranza e proseguire il cammino della nostra stessa origine. Nell'Ultima del Diavolo metto in scena anche il percorso del Sikander (l'Iskander secondo la lingua araba, l'Alessandro Magno della nostra memoria) quando ravviva l'ara del padre Giove Ammone: dall'oasi in Libia fino a Elia Capitolina, ovvero Al Aqsa.“

Se le dittature governano limitando l’informazione ed esercitando la censura preventiva, i regimi democratici, paradossalmente, sembrano ottenere gli stessi risultati tramite l’eccesso di notizie. Una massa di comunicazioni, la cui attendibilità è difficile da verificare, ottiene lo scopo di (dis)orientare il cittadino. Il risultato sono campagne mediatiche il cui obbiettivo è, secondo le ideologie e i tempi, demonizzare il nemico di classe, lo straniero, il musulmano…..

“Tutto vero. La democrazia, secondo la definizione di un genio quale fu Carmelo Bene, è esclusivamente "condominiale". Non produce poetica, è burocratica e non determina epica. La democrazia fonda la propria ragione sociale sull'impostura. Si priva di legittimità non avendo a fondamento nulla di sacro. Ovviamente non possiamo dirlo in pubblico perché la dittatura del luogo comune impone totale accettazione della trimurti demoniaca per eccellenza: libertà, uguaglianza e fratellanza. Ufficialmente si deve essere democratici. E la unica teologia ammessa in Occidente è quella secondo cui non si può prescindere dalla democrazia. Dall'altro lato ci sono le dittature. Oppure i ridicoli governi di satrapia tipo la Lega Araba, quelli che durante il massacro di Gaza non riuscirono neppure per un minuto a decidere di smettere di vendere petrolio all'Occidente, giusto per ricordare qual è la vera fratellanza. Insomma: non è di questo mondo la Repubblica di Platone.“ 

Abbiamo titolato la nostra rubrica “Al-Qantara”, parola araba che significa “Il Ponte”. Riteniamo infatti che gli uomini abbiano bisogno di costruire “ponti” verso il sacro e le altre culture, piuttosto che preparare nuove crociate. Purtroppo, parte dei media e della politica, promuovono intolleranza e disinformazione sulle vicende riguardanti le etnie e le religioni presenti nel nostro paese. Ci allontaniamo dalla pacifica convivenza tra le genti, tipica dei paesi mediterranei, per vivere anche in Italia un clima di conflitti ed emarginazioni come nel Nord Europa? Siamo in grado di evitare la trappola dello “scontro di civiltà”?

 “Al punto in cui siamo arrivati trovo difficile sfuggire alla trappola. Siamo già dentro la buca dello scontro. Il livello di scontro ha già superato le fasi preparatorie della disinformazione e della propaganda. Sono convinto che la crisi avrà un crescendo a causa della facile infezione che l'odio procura all'una e all'altra parte in gioco. Se da un lato non si può imporre con la forza la religione, dall'altro non si può pensare di forgiare l'individuo secondo i dogmi della superstizione laica. E l'Occidente che ha fatto della rimozione del Sacro il proprio status psicologico e culturale sta portando alle estreme conseguenze quell'idea secondo la quale chiunque non corrisponda ai canoni della liberal-democrazia laica non è nemmeno considerato un nemico, piuttosto un imputato.“

a cura di Hamza Biondo - 01/02/2010

lunedì 7 ottobre 2013

Penelope e il tentativo di travolgerne l'insegnamento


Penelope. Solo a dei malriusciti nell'anima può saltare in mente di dare un simile nome ad una perturbazione. Questa moda yankee di dare dei nomi femminili agli uragani rappresenta un'altra sconfitta della femminilità autentica!

Penelope rappresenta, all'interno dell'Odissea, l'ideale di donna del mondo omerico, un vero e proprio modello di comportamento. Ella è la sintesi di bellezza, regalità, pudore, fedeltà e astuzia. Una donna capace di aspettare e attendere l'uomo che ama. Senza mai dubitare del suo amore. Infatti, viene definita alter ego di Odisseo Ulisse, come per il figlio Telemaco.

mercoledì 25 settembre 2013

La Tradizione si situa al di là del tempo


“La tradizione non è il passato.
La tradizione ha a che vedere con il passato
né più né meno di quanto ha a che vedere
col presente o col futuro. Si situa al di là del tempo.
Non si riferisce a ciò che è antico,
a ciò che è alle nostre spalle:
bensì a ciò che è permanente, a ciò che ci sta “dentro”.
Non è il contrario dell'innovazione,
ma il quadro entro cui debbono compiersi
le innovazioni per essere significative e durevoli”.


mercoledì 28 agosto 2013

J.R.R.Tolkien, scrittore tradizionale e antiprogressista

Contro coloro che discreditano Tolkien e le sue indimenticabili opere letterarie, pubblichiamo, a poca distanza dall'anniversario della sua morte, un'interessante articolo che chiarisce come la sua visione antiprogressista e antimaterialista, quindi fortemente spirituale non possa in alcun modo essere messa in discussione. Egli ha creato un mondo che, tramite i suoi personaggi straordinari e i suoi paesaggi incantevoli, riesce a trasmettere i valori tradizionali adattandoli con un opera che riesce benissimo nel tentativo di far breccia anche nei cuori e nelle menti apparentemente travolte e annebbiate dalla valanga inarrestabile della modernità.
John Ronald Reuel Tolkien è stato, e si può considerare, uno scrittore “tradizionale” o “tradizionalista”? La domanda non è retorica, ma sostanziale. Molte delle polemiche pro e contro questo studioso di letterature antiche e di linguistica, poi divenuto narratore, ruotano in fondo intorno a questo concetto. Se la risposta è “no”, si tratta allora di diatribe che lasciano il tempo che trovano, di scaramucce giornalistiche contingenti, di strumentalizzazioni banalmente “politiche”. Se la risposta è invece “sì” allora la questione assume un diverso aspetto, più importante, più profondo, e si rivela essere uno dei tanti sintomi di come una certa parte del mondo moderno non riesca ad accettare un’opera che è sostanzialmente in contrasto, in opposizione, in distonia con i valori dominanti.
J.R.R.Tolkien dal punto di vista spirituale fu sicuramente un homo religiosus: era un cattolico convinto in una società protestante come quella inglese, un “papista” come venivano sprezzantemente definiti i seguaci della Chiesa di Roma; in più fu tra i cattolici un cattolico tradizionalista, vale a dire ossequioso sì ma assai poco propenso ad accettare le riforme del Concilio Vaticano II: ad esempio, non condivise l’abolizione del latino nella Messa. Devoto della Madonna e del Rosario, lo portava con sé: durante la seconda guerra mondiale, mentre era di guardia nelle postazioni antiaeree essendo inquadrato nell’esercito territoriale (nel 1939 aveva 47 anni), lo recitava regolarmente. Il riferimento ai Vangeli, alla devozione, alla spiritualità, ad un modo di comportarsi cristiano nella vita di ogni giorno, è costante nelle lettere ai suoi figli. Dal punto di vista culturale era, come ben si sa, uno studioso non solo di letteratura anglosassone e inglese, ma di miti, di saghe, di epopee, di antiche tradizioni, i cui simboli e valori contrappose sempre alla Modernità, sia come Weltanschauung, sia come stile, sia come atteggiamento dei protagonisti dei suoi libri.
Dal punto di vista esistenziale coltivava una vera e propria idiosincrasia per tutto quanto aveva a che fare con la società in cui viveva: la burocrazia nella vita universitaria, la pervadenza delle macchina in ogni dove, la distruzione della natura, il rumore ed il fracasso della città, l’industrializzazione.
Dal punto di vista politico si definiva “antiquato reazionario”: patriottico, monarchico, sostanzialmente antidemocratico, condannava l’imperialismo materialista, la progressiva scomparsa delle identità nazionali sia linguistiche, sia addirittura gastronomiche. Possedeva anche quel tanto di individualista e anarchicheggiante, insofferente, che è in ognuno di coloro i quali si sentono di vivere in una società assurda, soffocante, non a misura d’uomo. Insommma, come lo definisce il suoi biografo Humphrey Carpenter, era un “uomo di destra”.
Dal punto di vista narrativo riversò, travasò consciamente e inconsciamente tutte queste caratteristiche spirituali, culturali e umane nei suoi romanzi, soprattutto ne Il Signore degli Anelli, un’opera che voleva essere, secondo quanto esplicitamente disse negli anni Trenta, il tentativo di fornire di una mitologia il suo Paese, l’Inghilterra, che a suo giudizio ne era assolutamente privo. Una società assolutamente carente di miti nella prima metà del Novecento? Per il professor Tolkien qualcosa di inaccettabile, per lui che di miti e di religione si nutriva lo spirito. E così riproponendo dopo secoli un’opera in forma di saga ed epopea adatta ai lettori moderni, questo docente di Oxford ha dotato di un’appassionante mitologia non solo il suo Paese, ma, si può ormai dire con certezza, il mondo intero, dato che i suoi miti sono così universali, così “cattolici” si potrebbe dire ricordandoci l’etimologia greca della parola, che sono stati compresi, accettati e fatti propri da lettori che più lontani dalla mentalità britannica non si potrebbe. E questo, ovviamente, ad di là del successo planetario del film in tre parti di Peter Jackson, che ha dato solo più visibilità alla sua creazione.
Dunque, credo che si possa rispondere alla domanda iniziale positivamente: “Sì, Tolkien si può legittimamente definire e considerare un autore tradizionale”. Ma di quale tradizione? Su questo punto ci sono state polemiche anche speciose e un po’ ridicole: c’è chi lo restringe all’interno della tradizione cattolica e chi invece lo considera un esponente della tradizione classica, o anche pagana. Senza ombra di dubbio la sua formazione è cattolica, ma – lo disse in modo chiaro – scrivendo Il Signore degli Anellinon volle farne esplicitamenbte un’opera religiosa: non si parla mai di riti, di divinità, di espressioni evidenti di spiritualità, tantomeno di quelli cristiano-cattolici. Tutto è inveceimplicito nella sostanza dell’opera, tutto sta nel retroterra, nel sottofondo. E questo retroterra, questo sottofondo è un amalgama inestricabile di tutta la sua formazione interiore: di cattolicesimo e di paganesimo, di Vangelo e di Edda, così come di romanzi arturiani e di saghe islandesi, di mitologia germanica e di riferimenti celtico-irlandesi. La sua insomma, è l’opera di un “pagano convertito”, come Tolkien stesso definiva l’anonimo autore del Beowulf, il poema anglosassone la cui rivalutazione si deve proprio al nostro professore oxoniense. Per questo Il Signore degli Anelli, e gli altri testi che gli fanno da contorno, è importante: proprio per l’originale amalgama di tradizioni diverse portate a dignità di romanzo adatto ai moderni in pieno Ventesimo secolo.
Tolkien e la sua opera sono, dunque, nel solco di una tradizione che penso si possa definire legittima, proprio come accade per tutti quei grandi scrittori la cui apertura mentale, la cui sensibilità profonda, la cui grande cultura, consentono di accogliere ed esternare con la loro arte i simboli di una Tradizione perenne per inconsapevoli che possano esserne, come affermano sia René Guénon sia Julius EvolaUn autore e un libro così non potevano che avere quindi una pletora di avversari, di nemici che esternarono la loro ostilità in modi diversi, spesso contradittori e grotteschi, avendo per così dire fiutato a naso in lui e nei suoi scritti qualcosa di totalmente alieno e incomprensibile. Ovviamente ci interessa quel che è avvenuto in Italia, unico Paese al mondo in cui ci si è letteralmente scannati sulle interpretazioni da dare all’opera tolkieniana sotto un’ottica squisitamente “politica”.
Il Signore degli Anelli venne tradotto integralmente solo nel 1970 dalla Rusconi quando era direttore editoriale Alfredo Cattabiani su consiglio di Elémire Zolla e per la cura di Quirino Principe. All’epoca furono sufficienti questi nomi per metterlo all’indice: il fatto poi che si trattasse di un romanzo “fantastico” e non sociale o realistico o intimistico, e che fosse ambientato in uno pseudo-medioevo, come si disse, fornì altri spunti per condannarlo. La reazione della stampa italica in un periodo di forti tensioni politico-ideologiche fu prima il silenzio, poi l’aria di sufficienza, infine la condanna. Non poteva essere accettato un romanzo che avesse caratterstiche così estranee ai gusti degli intellettuali che condizionavano le patrie lettere. Lo si stroncò da vari punti di vista: il libro era da un verso troppo lungo, illegibile, zeppo di nomi astrusi e incomprensibili, noioso per le sue digressioni e le cronologie in appendice; per altri era un libro puerile, ridicolo, adatto ai bambini; per alcuni ancora era manicheo perchè distingueva troppo nettamente fra Bene e Male, fra buoni e cattivi, ed era anche un po’ razzista perchè i cattivi era regolarmente “brutti”; per altri, al contrario, era ambiguo, dato che non si riusciva a comprendere esattamente la sua posizione in certi momenti-chiave della trama, o rispetto al carattere di determinati personaggi (ad esempio, la regina degli elfi Galadriel).
Smontato il romanzo dal punto di vista letterario, non bastò. Di fronte ad un successo inarrestabile, nonostante la cattiva pubblicità, soprattutto fra i giovani e in particolare fra i giovani di destra che lo avevano eletto a loro libro di culto, ovviamente lo si qualificò dal punto di vista politico: conservatore, reazionario e, ovviamente, fascista. Poiché era letto dai ragazzi di destra che alla fine degli anni Settanta avevano realizzato i famosi Campi Hobbit, la caratteristica dei suoi lettori cadde anche sull’autore: era un fascista, anche perchè si scoprirono alcuni aspetti del libro che inizialmente erano passati in secondo piano, come i temi dell’eroismo, del sacrificio, della dedizione, del cameratismo. Di conseguenza, l’opera divenne tabù per i ragazzi della sponda opposta, quelli di sinistra, che erano costretti a leggerlo di nascosto, come rivelarono, una volta diventati più adulti, negli anni Novanta alcuni personaggi assurti a notorietà pubblica.
Il Signore degli Anelli si può definire veramente un’opera outsider, proprio “fuori posto” nell’Italia politicizzata degli anni Settanta, anche se questa definzione si può senza difficoltà applicare anche alle altre opere di Tolkien. Troppo diverso, troppo alieno, troppo distante dai valori (chiamiamoli così) di una intellettualità progressista che dettava legge su giornali e riviste, ma anche nelle università e nelle piazze. Non poteva che essere respinto quasi a priori per il suo sfondo, per i suoi personaggi, per la sua trama, per i punti di vista che trasmetteva. I suoi nemici di allora furono sostanzialmente politici, perché applicarono al romanzo concetti e definizioni “politiche”, trascinando la polemica su di un campo che non era quello proprio all’opera in sé nelle intenzioni del suo autore. Tolkien, come si è detto, voleva creare un’epopea, una saga, che parlasse di miti creando un mondo alternativo alla Modernità. E come tale venne inteso dai suoi maggiori e più entusiasti lettori degli anni Settante e Ottanta, quei ragazzi di destra che ne accolsero le valenze metapolitiche, vedendo nei suoi personaggi degli archetipi e nei suoi valori dei punti di riferimento, al di là di manifestazioni provocatorie e goliardiche come le scritte inneggianti al “camerata elfo” o ad “Aragorn al potere”, che invece i suoi detrattori consideravano la prova provata della politicità, e quindi della pericolosità, dell’opera da mettere dunque al bando.
Diversa la situazione trent’anni dopo, l’ottica in cui si sono mossi i nemici di Tolkien all’epoca del suo revival all’inizio degli anni Duemila grazie ai film del regista Peter Jackson. Mutati i tempi, mutata la società e soprattutto mutata la politica con il crollo dei “socialismi reali” e la crisi di quella che è stata definita l’“egemonia culturale comunista” in Italia, l’atteggiamento dei critici ha cambiato forma e contenuti in un modo singolare, paradossale e anche grottesco, assumendo l’aspetto di un tentativo – oggettivamente ridicolo – di cooptare Il Signore degli Anelli negandone certe caratteristiche contenutistiche e valoriali, tutto sommato banalizzandolo e, di conseguenza, condannando come strumentalizzanti precedenti interpretazioni. E ciò è avvenuto – non sembri un paradosso – sia da parte di critici di “sinistra” che di “destra”.
A sinistra, nel momento in cui apparve il primo film della serie, La Compagnia dell’Anello (2001-2002) vi fu una specie di gara giornalistica fra chi cercava di scoprire nell’opera di Tolkien specifiche valenze per poterlo considerare “di sinistra” e quindi riabilitarlo ed acquisirlo nell’area progressista, valenze ovviamente soltanto “politiche”: l’opera diventò all’improvviso antinazista, gli Orchi assomigliavano alle SS, essendo stato il romanzo scritto nella sua parte conclusiva durante la seconda guerra mondiale per alcuni Sauron era Hitler e Saruman nientemeno che Mussolini, si disse che Tolkien aveva combattuto contro l’apartheid, e altre amenità del genere. Si sono letti titoli un po’ surreali come “Fascisti giù le mani da Tolkien”, oppure “Eroi, spade ed elmi antifascisti”. Ci sarebbe da ridere su tutto ciò, ma ancora una volta è la dimostrazione come per la cultura progressista, alta e bassa, sia del tutto insensibile alla percezione di certi valori, come per essa un autore è accettabile o meno soltanto in base al suo minore o maggiore tasso di antifascismo. Per accettare Tolkien nel Duemila lo si deve quindi presentare come un ferreo nemico del nazismo e del fascismo, altro non conta, e che questa avversione – nonostante le precisazioni in contrario – deve essere ben percepibile nella sua opera.

Tutto il contesto simbolico e tradizionale non può essere accettato da giornalisti e intellettuali di sinistra. Di conseguenza, per parlar bene del libro deve essere messo in un canto. Depotenziare l’opera per renderla appetibile ad una cultura che non capisce, e quasi odia, il mito è il succo di un libretto pubblicato in occazione dell’ultimo film, dal titolo emblematico de L’anello che non tiene: al Signore degli Anelli non si possono applicare interpretazioni simboliche perchè è un puro e semplice romanzo d’avventura, quasi quasi realistico, e quindi tutte le elucubrazioni che vi si sono fatte intorno non hanno alcun senso. Pur di negare l’evidenza, si fa scendere il romanzo di gradino in gradino sino a considerarlo un’opera da poco, interessante sì, magari anche affascinante, ma in fondo robetta che non è degna di quel che le si è voluto costruire intorno come intepretazione di tipo tradizionale. Che viene considerata solo come una strumentalizzazione bassamente politica, quasi quasi ad uso partitico, organizzata – par di capire – a tavolino.
Ma anche a destra, se vogliamo far rientrare in questa definizione certi liberali, si è tentata un’operazione pressoché simile. In un altro presuntuoso libretto dal titolo definitivo La verità su Tolkien i due giovani autori, quasi fossero degli evangelisti, ci fanno trovare di fronte alla rivelazione che il nostro professore non era né un “fascista” né un “ecologista”. Anch’essi, per poca conoscenza diretta, cadono nell’equivoco dei loro più anziani colleghi di sinistra: poichè veniva letto dai giovani “fascisti” degli anni Settanta Tolkien passava anch’egli per “fascista”, ma così non è. Lapalissiano, e non era certo necessario un intero libro per spiegarlo. Quanto all’ecologista, di certo Tolkien non si sarebbe riconosciuto nell’ecologisno politico e militante di oggi, ma se con tale definizione ci riferiamo al suo amore per la natura e al suo profondo anti-tecnologismo e anti-industrialismo, al suo dolore quando vedeva campagne attraversate da nuove strade, alberi abbattutti, l’invasione delle automobili a Oxford, beh allora ecologista e ambientalista lo era. La Natura è sacra e l’Uomo, pur se definito dalla Bibbia il “padrone della creazione”, non può assolutamente fare quel che vuole, senza limiti e senza regole, nel giardino del mondo. Questo è chiarissimo in tutta la sua opera e negli esempi della sua vita.
Ma i due autori, che si proclamano liberal-liberisti-libertari, e di conseguenza strizzano un occhio alla modernità, all’individualismo ed al progresso di tipo americanoide, per scrollargli di dosso la terribile accusa di essere un uomo della Tradizione, cuciono sul povero professor Tolkien la casacca del “libertario”, quasi dell’“anarchico”, prendendo lo spunto da un paio di episodi della sua vita e dalla struttura sociale della Contea degli hobbit. Tutto vero, ma non è proprio possibile generalizzare: proclamarsi anarchico di fronte alle follie stataliste o burocratiche è qualcosa che abbiamo dentro tutti noi, ma Tolkien non è mai stato né un liberal, né un radical, né un libertarian secondo il concetto anglosassone, non è stato nemmeno un anarco-capitalista come si dice oggi, né un sostenitore di uno Stato minimo. Mordor è una esplicita fusione della dittatura materialista e di massa orientale e del capitalismo selvaggio, dell’industrialismo senz’anima occidentale. Inoltre, nella Terra di Mezzo ognuno manteneva la sua specificità, ma non sono esistite né democrazie né repubbliche, e accanto alla Contea degli hobbit agricola e pacifica, blandamente individualista, vi sono soltanto regni retti da sovrani con tutte le caratteristiche dei re tradizionali, che assommano il potere temporale e l’autorità spirituale, che guariscono i malati, rinsaldano le spade spezzate e con esse sconfiggono il nemico e riconquistano il trono, che fanno rifiorire gli alberi secchi e portano prosperità.
I nemici di Tolkien hanno assunto, dunque, una maschera più ambigua oggi. Non potendo più permettersi di rifiutare un autore ed un libro amati in tutto il mondo, mettendosi così contro una gran massa di pubblico, cercano di piegarlo alle loro ideologie per, ripeto, banalizzarlo, depotenziarlo e renderlo quasi inoffensivo: non portatore di simboli e valenze spirituali, non saga del Ventesimo secolo, ma normale romanzo d’avventura, quasi allo stesso livello dei tanti best sellers made in USA che ci sommergono; non autore tradizionale, ma un antifascista-doc, un libertario e un individualista. Operazioni sottili, ma senza spessore, soprattutto operazioni che lasciano il tempo che trovano dato che sono durate lo spazio di un mattino e poco tempo dopo nessuno se le ricorda più.
Il Signore degli Anelli è la dimostrazione più chiara ed esplicita di come, sapendo utilizzare i mezzi della moderna espressione narrativa, i valori che noi definiamo tradizionali possono essere ancora divulgati ed accettati da grandissime fasce di lettori in tutto il mondo, forse senza neanche rendersi conto di cosa sono e rappresentano. Ma non per questo, credo, essi non lavorano in profondità.
Gianfranco de Turris,
Fonte: Centro Studi la Runa, 

domenica 25 agosto 2013

Perché è importante la bellezza?

Riflessioni a margine delle orribili manifestazioni della Perla che promuovono il senso della "bellezza" nel mondo moderno.

Data la dilagante bruttezza della società moderna in cui ci troviamo a vivere e che sta travolgendo ogni aspetto della vita, dal linguaggio alla musica, dall'arte all'architettura, viene istintivamente da chiedersi che fine abbia fatto la bellezza. Oggi assistiamo addirittura alla celebrazione del brutto attraverso feste come Halloween in cui vestirsi da zombi e simulare atti cannibaleschi fa molto "cool". Perché?
L'architettura dal canto suo ha abbandonato qualsiasi preoccupazione per il dettaglio, per l'armonia, al fine di sacrificare tutto nel nome dell'utilitarismo. Gli edifici sono costruiti tenendo conto esclusivamente della loro utilità senza lasciare spazio ad altro. Come sono straordinari ed espressivi quei santi scolpiti e posizionati talmente in alto, sulle colonne delle cattedrali simbolo della civiltà del passato, tanto che nessuno riesce a scorgere le loro espressioni. Ti domandi allora: quale generosità comandò il sacrificio dell'artista di creare senza mostrare? Quale fede?

Nell'arte della scultura e della pittura assistiamo alla medesima degenerazione verso il culto della bruttezza. Le esigenze universali di bellezza radicate nel profondo della natura umana sono oggi messe in discussione da una correttezza politica che vuole convincerci che ogni persona ha il suo standard di cosa sia bello e cosa sia brutto. Ecco allora che si è fatto spazio la concezione soggettiva che l'arte non sia altro che un'idea e poiché chiunque può avere delle idee ecco che tutto può essere arte e chiunque può pretendere di essere un'artista senza più preoccuparsi del talento, del buon gusto o della creatività.
Nelle grandi civiltà tradizionali la bellezza era considerata un valore, alla stregua della verità e della giustizia. Essa era concepita come una finestra sul sacro in grado di elevare l'animo umano dalla sua condizione terrena, per strapparlo dagli appetiti del quotidiano e condurlo verso il trascendente. Bellezza e sacro sono strettamente collegati. Una volta l'arte era fondata sulla religione e ai più elevati livelli l'arte è stata spesso creata al servizio della religione. Ma anche l'arte che non menziona Dio può avere una forza religiosa come ad esempio Tristan e Isolda di Wagner. Ciò si deve al fatto che la bellezza ci apre alla certezza che la nostra vita non sia solo consumata, ma viene redenta.
Senza radici spirituali l'arte diventa un fantasma, piena di odio e di scherno privata del dono della bellezza. Dietro ogni  grande cultura che ha creato la Civiltà vi è stata tradizione religiosa. La degenerazione moderna verso l'adorazione del brutto nell'arte, nella musica e nell'architettura non è altro che lo specchio della nostra società così com'è nel suo intimo, nelle sue maniere, nel suo linguaggio, nel suo essere e cioè priva di ogni riferimento superiore.

Nel mondo moderno è all'opera un nichilismo attivo che proviene dalla delusione amara di quelle persone che non possono trovare la fede. Il brutto è la manifestazione estetica del loro egoismo, della loro ricerca del piacere e del profitto...
Così, alla stregua di coloro che perdono la loro fede e sentono il bisogno di sbeffeggiare quello che hanno perduto, così sentono gli artisti di oggi, come anche le persone nella vita di ogni giorno, di trattare la vita umana in modo degradante e di ridicolizzare il bisogno del bello.
Ma si dovrebbe rifiutare questa condizione non accettando tale alienazione e sforzarsi di uscire da questo deserto spirituale che ci circonda ricercando l'Ordine, la Bellezza, in cui l'ideale e il reale coesistono in armonia.

Nico di Ferro

martedì 2 aprile 2013

“Indirizzi per l’Azione Tradizionale. Scritti di educazione e formazione militante”

Reperibile presso il Centro Studi Aurhelio:

Indirizzi per l’Azione Tradizionale 
Scritti di educazione e formazione militante RAIDO76 pp. – 8,00 €

Gaetano Alì
«Maestro è colui che conosce la strada per averla percorsa, e Gaetano è stato per tutti quanti noi maestro e guida. Prima di tutto per le sue doti umane, per la sua capacità di amore per il fratello e dedizione alla causa; e poi per l’eccezionale conoscenza dottrinaria, nutrita di sapienza meditante e di studio approfondito dei testi tradizionali, dove la lettura diventa distillato di conoscenze. Il suo più grande merito è stato, in questi lunghi anni, quello di averci tolto ogni illusione, aprendoci gli occhi e sostituendo ai sogni le certezze. Ci ha mostrato gli indubbi limiti dell’attività politica e l’inconsistenza delle velleità rivoluzionarie ad essa legate; proponendoci l’alternativa percorribile dell’azione tradizionale»


Estratto dalla Premessa
«Gli articoli che compongono questa pubblicazione, apparsi sulla rivista ‘Heliodromos’ a partire dal 1979 e firmati con degli pseudonimi, sono stati selezionati in collaborazione con la comunità dei “Centri Studio di Formazione Tradizionale Heliodromos” per la natura politico – militante e per la peculiarità formativa e pedagogica dei contenuti [...] al termine degli articoli di Gaetano, abbiamo inserito una postfazione curata dalla Comunità Militante Raido sul metodo di azione tradizionale, per evidenziare quella natura prospettica [...] per ribadire l’importanza della tramandazione tra le generazioni, la continuità tradizionale tra chi lascia e chi ha il dovere di proseguire»

fonte: AzioneTradizionale

sabato 23 febbraio 2013

Elementi della cultura tradizionale


Documenti per il Fronte della Tradizione - Fascicolo n. 33

di Antonio Medrano

€4.00 - 40 pg.

Gli scritti di Antonio Medrano, "Elementi fondamentali della cultura Tradizionale" e "Il modo di vita Tradizionale" rappresentano un sicuro punto di riferimento per il militante del Fronte della Tradizione.
Per noi di Raido, non si tratta di una semplice lettura, ma qualcosa di più, due saggi che rappresentano il modello esistenziale a cui far iferimento nell´azione quotidiana. Un orientamento dottrinale, che va oltre le belle parole, e che determina un modo d´essere e un´appartenenza.
Se da una parte vi è l´uomo moderno, privo di qualsiasi solidarietà e d´identità, un individuo spinto ad agire dall´utilitarismo e dal proprio egoismo, dall´altra parte, vi è l´uomo della Tradizione che ancora percepisce vivo nel proprio cuore la presenza del Sacro.
Un uomo, che dinanzi alla follia del mondo moderno, costruito sul profitto e sulla sopraffazione, oppone un impegno totale per lottare contro ogni abuso e devianza. Si tratta di assumere una disciplina che abbia come scopo il dominio di sé, che valga a ripristinare il senso Sacro della Tradizione, come visione del mondo e come Stile.
Un´azione che sappia diventare "volontà di riscatto", che determini una continua tensione a migliorarsi e che incida positivamente nella realtà circostante.
È necessaria un´educazione severa diretta a formare un Uomo Nuovo, perché ciò che non è giusto e vero, non è neanche utile.
Non è più tempo di arrampicarsi sugli specchi, lo Stile non può essere appreso o inventato è una questione di "qualità", è un sentire profondo reale, allora o lo si possiede o si è altro ... solo perdita di tempo.

RAIDO

venerdì 25 gennaio 2013

Il totalitarismo della “società aperta” antitradizionale.


Ha suscitato una grande indignazione, nel settembre del 2012, l'adozione della risoluzione da parte del Consiglio ONU Per i Diritti Umani che introduceva per la prima volta in materia di diritti umani il concetto di "valori tradizionali". La risoluzione, che ha visto il voto contrario dei paesi dell'Unione europea insieme agli Stati Uniti, è stata criticata per il fatto di voler relativizzare i diritti umani alla luce delle tradizioni locali, minando la loro presupposta universalità.
Tale atteggiamento non deve stupire se pensiamo che negli ultimi anni in Occidente è stata scatenata una vera e propria guerra contro i residui della "società patriarcale", contro gli "arcaismi medievali"  che secondo l'élite democratica sono la radice di ogni male. Così, è diventata una moda combattere ogni tipo di "fobia" sociale. L'eradicazione di questi "vizi" sociali è diventata la preoccupazione principale della cosiddetta "società civile" che, alla pari dei commissari politici sovietici, i politruki, vigilano attentamente con la matita in mano sulla "correttezza politica" del "popolo affaccendato". Questi nuovi politruki democratici sono convinti che eliminando qualsiasi tipo di "stereotipo" si raggiungerà l'uguaglianza assoluta in una società, che secondo la loro visione, dovrebbe essere costituita da persone guidate esclusivamente dalla ragione (senza emozioni, senza tradizioni, senza valori, senza pregiudizi,...) cosa che porterà più felicità e libertà per tutti. Questa è la loro definizione di "società aperta", un modello sociale utopico che ricalca le orme del dogmatismo marxista sebbene apparentemente sembra dissociarsene. 

"Nessuno può istituire un criterio della moralità", dicono loro, allora, ci domandiamo noi, qual è la fonte del "bene" che loro pretendono di promuovere? Se dobbiamo proprio lottare contro la tradizione e contro gli "elementi arcaici", che rappresentano dei criteri per la delimitazione del "bene" dal "male" in qualsiasi società, allora che cosa e chi ci può dire cosa sia ammesso e cosa sia vietato? Chi stabilisce, de facto, dove finisce la mia libertà e inizia quella di un altro individuo, la libertà di una comunità o di uno Stato? La Costituzione? La Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo o altri documenti internazionali? Non ci dimentichiamo che questi documenti appartengono pur sempre alla dimensione temporale e che possono essere sottoposti alla revisione in qualsiasi momento, oppure, in ultima analisi, essere addirittura denunciati, senza che rappresentino un'autorità di per se. Lo stesso concetto di "diritti dell'uomo" appartiene a un dato contesto storico ristretto e non è il risultato di una "evoluzione" o di un "progresso" dell'umanità. I presupposti culturali secolarizzati che stanno alla base della Dichiarazione del 1789 possono legittimamente essere assenti in altre culture. Se per esempio la concezione dell'Universo nata dalla Rivoluzione francese mette al centro l'individuo, in altre culture è la comunità che viene privilegiata.[1]

Antoine de Saint-Exupery nella sua opera “Cittadella” si domanda: <<Dove inizia e dove termina la schiavitù? Dove inizia e dove termina l’universale? Dove iniziano i diritti dell’uomo? Perché io conosco i diritti del tempio che dà un significato alle pietre e i diritti dell’impero che dà un significato agli uomini e i diritti del poema che dà un significato alle parole. Ma non riconosco i diritti delle pietre ai danni del tempio né i diritti delle parole ai danni del poema né i diritti dell’uomo ai danni dell’impero>> [2]

Tutto ciò dimostra come la presupposta universalità dei diritti dell'uomo è lungi dall'essere realmente universale. Al tempo stesso però nemmeno il consenso o il contratto sociale possono essere una fonte per delimitare il "bene", perché possono essere nella stessa misura una fonte per il "male".

Il bene e il male hanno sempre avuto radici metafisiche, non materiali. Da qui deriva l'incapacità delle ideologie moderne, nate dal materialismo e dal razionalismo illuminista, di rispondere alle domande fondamentali dell'umanità. La ragione individuale e collettiva sono troppo limitate in esperienze per poter offrire delle risposte a delle domande così complesse. La Tradizione, invece, è stata quella che ha risposto a tutte le domande fondamentali dell'umanità.

Per Tradizione, si intende un'eredità  la cui origine non è umana, ma essenzialmente spirituale e che ha assunto diverse forme asseconda dei popoli. Essa è qualcosa di metastorico e, in pari tempo, di dinamico, è una forza (...) che agisce lungo le generazioni in continuità di spirito e di ispirazione, attraverso istituzioni, leggi, ordinamenti che possono anche presentare una notevole varietà e diversità.[3] È la Tradizione stessa quindi che istituisce il criterio di delimitazione tra il bene e il male. La Modernità invece è stata quella che ha trasposto la Tradizione in norme giuridiche. 

Oggi, assistiamo nella giurisprudenza al tentativo di instaurare l'assurdo e l'inimmaginabile: la purificazione della norma giuridica da ogni tradizione e da ogni "arcaismo" in modo che la legge divenga uno strumento arbitrario, un meccanismo morto, "una dichiarazione di intenti" oppure un manifesto politico-ideologico (come ad esempio la  Legge sulle "pari opportunità") che servirebbe come strumento di repressione contro coloro che si oppongono all'ideologia "ufficiale" ed "assoluta".[4] Insomma non sono mai le idee a doversi adattare alla realtà, è la realtà che deve piegarsi agli schemi dell’ideologia. Senza orma di dubbio, con l'eliminazione degli "arcaismi" dalle leggi, si presuppone anche l'eliminazione dalla società degli individui che si fanno promotori di questi "arcaismi" dietro la motivazione che ostacolerebbero "l'ascensione gloriosa della società aperta".

Una fobia viene sostituita da un'altra fobia, una discriminazione prende il posto di un'altra discriminazione. L'equazione non cambia, sono solo i termini dell'equazione che cambiano. Ecco perché non ci si deve stupire quando si fa ricorso alla censura, alla violenza simbolica e fisica in nome della ”liberté, egalité, fraternité".


Nico di Ferro

[1] “Riflessioni sulla cultura dei diritti dell'uomo”, Luigi Arnaboldi, http://www.interculture-italia.it.
[2] Antoine de Sainte-Exupery, Cittadella, ed. Borla, Roma, 1999, pg. 195-196.
[3] Il Mondo della Tradizione, centro studi Raido, Roma, pg. 23.
[4] Octavian Racu, www.octavianracu.wordpress.com.


lunedì 14 gennaio 2013

Nel nome di Yukio Mishima


Documenti per il Fronte della Tradizione - Fascicolo n. 20

di F. Goglio.

In appendice "Una sfida al nostro tempo" un saggio di M.M. Merlino

€4.00 - 32 pp.

Molti considerano Yukio Mishima un fine letterato, un artista geniale che ha saputo elevare la trasgressione a valore di vita, costoro soffermano la propria attenzione solamente sulla sua vasta produzione letteraria e su alcuni aspetti secondari della sua vita personale. Questa visione riduttiva, in realtà, nuoce alla figura del pensatore giapponese, perché è giusto annoverare Yukio Mishima tra gli scrittori che in questo secolo hanno saputo interpretare e risvegliare la forza dello Spirito.
La sua esperienza, che si trova riflessa nelle sue opere, è un chiaro riferimento ai valori della Tradizione, una scelta di che ha il suo fondamento nelle piccole conquiste quotidiane e nei sacrifici totali. Così da giovane, esasperato per i numerosi complessi fisici e psicologici, è riuscito grazie ad una severa disciplina, a trovare il giusto equilibrio tra corpo e intelletto, reagendo con una eccezionale volontà agli ostacoli che il destino gli ha posto dinanzi. Per questo motivo Mishima rappresenta l'uomo della disciplina e dello stile, un uomo che ha saputo tenere desta la tensione interiore, vivendo la sua scelta guerriera come atto d'amore teso ad un continuo miglioramento e al superamento dell'individualità. 
Quest'opera di rinnovamento interiore non è avvenuta a chiacchiere, bensì plasmando la realtà con sacrificio, tenacia e purezza; e per realizzare questo ideale non ha esitato a sacrificare la vita terrena, in cambio dell'eternità. La sua scelta pura e impersonale è ancor oggi esempio e sfida contro ogni sterile ideologismo, dove il gusto aristocratico del "pazzo morire " si scontra violentemente contro la volgarità di un'esistenza plebea. Schieratosi contro la contaminazione americana della sua patria, Mishima ha sognato il ritorno ad un'epoca eroica, ad un mondo di samurai e kamikaze, tanto da esortare i suoi connazionali a rinverdire lo spirito guerriero e il supremo amore per la Patria. Scriverà in "II pazzo morire" (ed. Sanno-Kai) "la professione del samurai è il mestiere della morte. Non ha importanza quanto sia pacifica l'epoca in cui vive, la morte è la base di ogni sua azione. Nell'istante in cui ha paura ed evita la morte, egli non è più un samurai ".
II 25 Novembre del 1970 Mishima decide di togliersi la vita come un samurai, un guerriero d'altri tempi, lo fa in modo spettacolare lanciando ancora una volta la sua sfida e il suo "scandalo ".
"Alcuni intellettuali lo ricordano come il raffinato scrittore del Giappone postbellico, noi preferiamo ricordare di lui la Tradizione, l'onore, il coraggio che si fece testimonianza di messaggio e sacrificio volontario ".

RAIDO

domenica 9 dicembre 2012

Il fuoco di Sparta

Documenti per il Fronte della Tradizione - Fascicolo n. 34

a cura della Comunità Militante Raido

€4.00 

Ed ora ecco qui, tra queste scarne pagine, riaffacciarsi ancora una volta, in una delle sue mille forme, uno di quei miti che noi sappiamo mai morranno: Sparta. Esso incede attraverso i secoli, giunge fino a noi per parlarci senza tema di errore, di ciò che è semplicemente l’essenziale. Allora ed oggi.
L’essenziale: cosa vi è oggi di più lontano, dimenticato, indispensabile? Ed è per questo che la lontana Sparta è per noi ora più che mai necessaria. Perché Sparta? Non solo perché l’eco delle sue imprese è ancora capace di farci drizzar la schiena e alzar lo sguardo, suscitando irrazionali aneliti di impersonale affermazione; non solo perché il solo suo nome incide il nostro immaginario come una lama incandescente, aprendo zampilli di volontà pura che inondano il nostro spirito; non solo perché nelle orme che i suoi guerrieri hanno lasciato su mille campi di battaglia, riconosciamo il peso di giganti della storia come dello spirito. Ma perché molto chiaramente Sparta ci ricorda ciò di cui dobbiamo ricordarci: di noi stessi. Di come dovremmo essere. Di come ogni Uomo e ogni Donna dovrebbe vivere la sua vita. Ecco perché Sparta. Ecco il perché della sua autoritaria attualità.
Mantenendosi lontano da privilegi personali o da effimere agiatezze, e pienamente dedito al bene comune, l’uomo spartano alza lo scudo contro tutto ciò che lo distrae dal suo compito primario: edificarsi, attraverso la pratica della virtù, a qualificato ricettacolo delle più alte influenze spirituali. Lavorare su se stessi per superare se stessi. E’ imperativo: l’uomo va costruito, e per tutta la vita. Si rifiuta quindi ogni capitolazione dell’uomo, ancor prima che di fronte al nemico, di fronte a se stesso; l’alibi che, appoggiandosi sull’ineluttabilità delle situazioni o sull’accettazione delle proprie limitate potenzialità, nasconde arrendevolezza (tipico forse delle generazioni dei nostri tempi?). Le leggi di Sparta portano l’uomo ad affermarsi quale centro, non di interessi, ma su cui applicare uno sforzo continuo, trasfigurante. Si esige che non solo il comportamento ma anche l’attitudine sia conforme al sacro.
L’impersonalità e l’impeccabilità dell’atto portano necessariamente a vincere la duttilità del carattere.
Uomini duramente forgiati, eretti a difesa della loro Città la quale attualizza, in una Comunità organica, tradizionale e funzionante, l’Idea di Sparta.
Perché è l’Idea stessa, antecedente e superiore al fenomeno contingente, a dare un significato ed un peso unico a quella Città e ai suoi guerrieri; un peso che ha saputo a volte modificare il percorso della Storia che, come alle Termopili, sembrava già scritta. Storia che ha voluto rendere onore alla grandezza di quegli eroi chiamandola a divenire testimonianza viva e perenne di atto sacro. Testimonianza che, come lava incandescente ed indomabile, sembra riaffiorare tra le ferite della terra, in luoghi e tempi lontani tra loro, proprio quando il mondo è di nuovo minacciato e la storia non vorrebbe continuare il suo percorso. Quando un altro pugno di uomini, volontari in armi, affronta sicuro tra le macerie di Berlino un altro esercito innumerevole. Quando questo altro esercito informe -senza Forma- che si è poi ammantato di rappresentare “tutto il resto del mondo”, avanza tra devastazione e fuoco perché vuole nuovo sangue, sangue di cuori davvero vivi, cuori veri, cuori neri. Quando un altro Comandante rimane a morire al suo posto. Quando un’altra Civiltà viene spezzata con tellurica brutalità. Quando nel pericolo il Sacro viene sconfessato dagli uomini e affermato dagli Eroi. Lì è di nuovo presente Sparta.
Vogliate perdonarci se, tradendo il dettato laconico, tante parole sono state usate in queste pagine per parlare di Sparta. D’altronde chi potrà fino in fondo capire Sparta se non chi vive da spartano? E chi vive da spartano che bisogno ha delle parole? Ma i testi che seguono, descrivendo in meravigliosa sintesi ciò che Sparta fu allora, ci aiutano a capire come essa possa essere, oggi per noi, una realtà viva.
Ma anche qui, quando si fa chiara la profonda volontà di essere che chiama all’appello tutte le nostre forze ed il nostro spirito, la coscienza si deve porre a giudizio del nostro comportamento: affinché ciò che interiorizziamo leggendo non serva solo ad appagare le velleità di una vita parallela! Dunque guardiamoli negli occhi questi uomini e queste donne spartane, eccoli tutti avanti a noi, ritti, fieri e con una lunga ombra: se noi domani li dimenticassimo, dimenticassimo il loro esempio e le loro sofferenze, saremmo stati noi e non l’esercito di Serse o le leghe antispartane ad ucciderli! Uno di quei giavellotti scagliati nella furia delle Termopili, è volato in alto, attraversando mondi, squarciando i veli oscuri dell’antitradizione, fino a conficcarsi oggi nella nostra dignità.
Aspetta che nuove braccia siano pronte a raccoglierlo, hic et nunc!
Bisogna ora far silenzio… e farci accompagnare dai rulli di tamburi in un viaggio dove il fuoco di Sparta illuminerà meglio il nostro cammino, renderà più nitida la nostra vista, manterrà ardente la nostra volontà di Giustizia.

RAIDO

mercoledì 31 ottobre 2012

L'inglese: l'influenza e l'imposizione di un modo di pensare

Ci ha mai riflettuto qualcuno sul perché una lingua diffusa attraverso le conquiste militari, la colonizzazione e lo sfruttamento di popolazioni inermi è considerata la lingua più adeguata e importante per diffondere il valore del rispetto reciproco ed educare i giovani europei a vivere insieme? Una lingua, che dietro alla giustificazione che la vuole di comunicazione internazionale, si impone in tutti i settori e a chiunque con serie ripercussioni sulla diversità culturale del Globo.
Da piccoli siamo obbligati a studiare l'inglese nelle scuole, spesso senza alcun margine di scelta. Magari qualcuno riserva una vocazione per un'altra lingua. Forse c'è chi è incline verso lo spagnolo o verso il francese, lingue neolatine sorelle molto più vicini all'Italia di quanto non lo sia l'inglese. Ma no, non si può scegliere, perché qualcuno ha già deciso per noi. Sembrerebbe che l'inglese sia quasi più importante dello stesso Dio. Infatti, mentre la religione viene esclusa dalle scuole perché ostacolerebbe la libertà di coscienza dei giovani, l'inglese viene imposto in alcuni casi addirittura sin dall'asilo!
Risulta chiaro come, in un simile contesto, si tende a considerare come normale il dominio dell'inglese in qualsiasi aspetto della vita quotidiana e culturale della società. Si è manipolati sin dalla più tenera età, al tal punto che ci si inculca l'idea che se si conosce l'inglese, ovunque si va nel mondo il successo è garantito, che parlare l'inglese è un indice di intelligenza fuori dal comune, ma se invece non lo si parla, allora si sarà un semianalfabeta. In questa maniera si tende a far abituare la gente, col trascorrere degli anni, ad avere complessi d'inferiorità verso la propria lingua, declassata al rango di lingua di serie B.
Senza cultura la nostra vita non avrebbe significato. Se una comunità vive in maniera armonica è perché dietro ad essa esiste una cultura che determina il valore e il senso di qualsiasi cosa la circonda. La cultura di un popolo è il risultato di un'esperienza interiore, individuale e comunitaria ma allo stesso tempo intergenerazionale. La lingua che parliamo, ad esempio, come mezzo principale di trasmissione della cultura, che è contemporaneamente essa stessa cultura, esiste perché altri prima di noi l'hanno parlata. La presenza della lingua inglese in ogni aspetto della vita di un popolo, a lungo termine, significa minare le fondamenta della comunità tramite l'imposizione artificiale di un presente mutilato del proprio passato con la conseguenza che il domani sarà un futuro senza memoria, senza punti di riferimento, trasformando le nuove generazioni in degli recipienti vuoti facili da manipolare.
La lingua quindi, ben prim di essere una competenza richiesta dal mercato del lavoro, è innanzitutto una forma mentis, un modo di pensare, una maniera logica di intendere la realtà ereditata da generazioni che al tempo stesso veicola una scala di valori. La lingua è un patrimonio comune e le radici di un popolo. La lingua è cultura.
La lingua inglese, secondo quanto afferma Anna Maria Campogrande, presidente dell'Associazione per la difesa e la promozione delle lingue ufficiali della Comunità Europea all'interno della Commissione Europea, è una lingua che veicola essenzialmente i valori del capitalismo, del mercantilismo, del profitto e del colonialismo economico e culturale. La lingua inglese insegnata in tenera età può segnare una volta per tutte il modo di pensare dei bambini italiani distruggendo così quel che è rimasto del modello culturale italiano.

Le giustificazioni che sono invocate per mantenere l'inglese nelle posizioni chiave in tutti i settori, è un modo di procedere tipico dei Paesi di piccole dimensioni, che, in mancanza di un mercato interno adeguato che permetta loro la produzione in lingua nazionale di tutte le espressioni culturali, dal cinema alla musica fino alle trasmissioni televisive, permettono la loro incorporazione culturale e spirituale nella sfera anglo-americana. Occorrera dunque, sempre una maggiore attenzione per non assistere passivamente all'imposizione di un pensiero unico soltanto perché fa "trendy". In verità, produce soltanto schiavi.

Nico di Ferro

martedì 20 marzo 2012

Il Mondo della Tradizione

Prefazione alla seconda edizione

Sconvolgendo anche le più rosee previsioni, la prima edizione di questo quaderno è andata in breve tempo ad esaurirsi, e questa seconda ora va riempiendo un vuoto che molti già lamentavano.

Numerose sono state le segnalazioni e gli incoraggiamenti ricevuti per la realizzazione di questo piccolo ma essenziale scritto, che non può né vuole essere esauriente, ma offrire al militante un momento di riflessione.

L’obiettivo prefissato è quello di risvegliare nei propri “simili” l’entusiasmo per la Tradizione e favorire quel processo di formazione dei militanti atto a realizzare il differenziarsi dalla perversione moderna.

Infatti, il primo quaderno della collana “La formazione del Militante della Tradizione” delinea in modo semplice ed essenziale la dottrina tradizionale che per ogni militante deve essere il punto di partenza d’ogni azione. Siamo convinti che, senza un preciso punto di riferimento, è difficile resistere al vortice della decadenza e la crisi del mondo moderno, alla lunga, finisce con il coinvolgere anche chi rifiuta la sua logica.

Frequentemente le azioni che si compiono non hanno un fine preciso, si vive alla giornata, restando impantanati nelle sabbie mobili di uno sterile intellettualismo, o vittime sacrificate ad un’agitazione senza senso. Si ha così un militante rinchiuso nella sua torre d’avorio o pronto a rincorrere ogni tipo di problematica sociale, con l’illusione di essere al passo con i tempi, ma entrambe queste soluzioni altro non sono che la conseguenza di un tipo umano inconsapevole della realtà che lo circonda.

Julius Evola, in “Rivolta contro il mondo moderno”, afferma che uscire dalla Tradizione significa uscire dalla vita; abbandonare i riti, alterare o violare le leggi, confondere le caste, significava retrocedere dal cosmos nel caos”.

Tradizione è “regola”, cioè Legge interiore ed esteriore a cui far riferimento, specie nei momenti di crisi come quello attuale. Regola e misura, che prima di tutto devono informare il nostro stile di vita e delimitare i confini tra gli amici e i nemici.

Per questo motivo la dottrina tradizionale non si può imporre, ma deve essere una libera scelta, un momento di crescita interiore liberamente voluta e cercata. È possibile che non sempre si sia all’altezza delle proprie aspirazioni, dinanzi agli ostacoli si può cadere, ma ciò che importa è rialzarsi e affrontare con più determinazione le difficoltà.

Per il militante la Tradizione diventa un sostegno necessario per affrontare le prove quotidiane; il suo agire è lucido e cosciente; il rispetto per la Verità e la giustizia, per la natura e per le sue leggi, sono il segno tangibile del collegamento con un Ordine trascendente che coinvolge tutto l’essere umano.

In conclusione vogliamo ringraziare tutti coloro, e non sono pochi, che ci hanno contattato confermandoci la loro simpatia e il loro entusiasmo, e che inoltre ci hanno informato che hanno utilizzato questo scritto come vademecum in gruppi di studio soprattutto di giovani militanti. Vogliamo ringraziare ancora quanti si sono prodigati e si prodigano alla sua diffusione, che oggi può annoverare numerose traduzioni ed edizioni anche al di fuori dei confini nazionali.


La Formazione del Militante della Tradizione

Quaderno Numero Uno: Il Mondo della Tradizione

Indice

Premessa

1. Dalle origini al mondo moderno

2. Il Sacro e la Tradizione

3. Che cos’è la Metafisica

4. Gli Stati dell’Essere: Archetipo-Spirito-Anima-Corpo

5. Esoterismo ed Exoterismo

6. L’Autorità

7. Le Caste

8. La Civiltà

9. La Guerra Santa: vita est militia super terram

10. Decadenza e sovversione

11. L’iniziazione

12. Contemplazione e azione

13. La Legge

14. Il Rito

15. Il Mito

16. Il Simbolo

Appendice

I. La Croce

II. Il Sole

Orientamenti Bibliografici


Disponibile presso il Centro Studi Aurhelio