sabato 28 marzo 2009

Roman Fiodorovic Von Ungern Stenberg - Ungern Khan!




«Spegnerò la stella rossa» Il barone che ispirò Pratt


«La vittoria o la sconfitta sono due puttane bugiarde. Solo la guerra m’interessa. Non quello che viene dopo. Bisogna combattere sino in fondo. Anch’io ritengo che questa guerra sia perduta. Ma la disperazione è bugiarda quanto la speranza. Solo una cosa conta: diventare ciò che si è e fare ciò che si deve». Così parlò il generale-barone Román Fiodórovic von Ungern-Sternberg (1885-1921), il leggendario condottiero baltico anticomunista immortalato da Hugo Pratt in un episodio di Corto Maltese (Corte Sconta detta Arcana). «Diventa ciò che sei», ammoniva lo Zarathustra nietzschiano e Ungern Khan, come venne ribattezzato in quanto “liberatore” della Mongolia, non si tirò indietro rispetto a ciò che il destino aveva in serbo per lui: battaglie e sangue.
il gusto della guerra
Solo in battaglia il suo spirito si realizzava. In tempi di pace diventava inquieto. Diceva ai suoi: «Rispetto l’unica legge del mondo, che è quella della lotta. In questo senso, il bolscevismo può diventare una possibilità, perché rischia di provocare una reazione». E ancora: «I rossi vogliono la lotta di classe. Sto preparando loro l’unica risposta possibile: la lotta di razza. Non temo la forza dei rossi. Essa è nell’ordine spietato delle cose di questo mondo. No, temo la nostra debolezza eretta a virtù. Il mondo morirà di “buoni sentimenti”». Per sua fortuna visse in un’epoca dove le occasioni per guerreggiare non mancavano. Quella del barone Ungern non fu certo un’esistenza mancata. La razza che volle opporre ai “rossi” fu quella dei combattenti a cavallo delle steppe asiatiche, i mongoli.
Difficile distinguere il mito dalla realtà quando si parla di un avventuriero che sfugge a ogni definizione. Di certo la sua spietatezza non si discosta da quella degli altri comandanti che operavano sullo scacchiere euroasiatico nel caos seguito alla Prima Guerra Mondiale. Ciò che si può ricostruire, di storico, di questo ex ufficiale zarista autoproclamatosi generale è che combatté contro i sovietici e i cinesi fra il 1920 e il 1921, dopo la disfatta dei “bianchi” zaristi, e che costituì un regno mongolo durato solo 6 mesi, basato sul terrore e la violenza. Fu la guida della Cavalleria “Selvaggia” composta per lo più da cosacchi, buriati e mongoli, condotta verso una sicura sconfitta contro un’Armata Rossa trionfante su tutti i fronti. Parte della sua vita può essere ricostruita dagli atti del processo, celebrato dai sovietici, che ne decretò la morte. Un’altra fonte di informazioni, ma molto romanzata, è il resoconto (Bestie, Uomini, Dei, Edizioni Mediterranee) di un professore polacco, Ferdinand Ossendowski, che incontrò il barone nel 1921.
Ora due novità editoriali, Il dio della guerra. Il barone Roman Feodorovic von Ungern-Sternberg di Jean Mabire (Edizioni Ar, pp. 226, euro 20) e il volume a più mani Imperi delle steppe (a cura di Daniele Lazzeri, prefazione di Franco Cardini, illustrazioni di Francesco Iacoviello, con saggi, fra gli altri, di Aldo Ferrari e Pio Filippani Ronconi, Centro Studi Vox Populi, pp. 294, euro 19, ), ripresentano la figura di questo zarista irregolare, dapprima vicino ai “bianchi”, poi appoggiato dai giapponesi, infine scaricato da tutti, solitario cavaliere di un’apocalittica lotta contro il bolscevismo.
Figura mitica quindi, come lui stesso avrebbe ammesso in una delle fantomatiche “conversazioni” con Ossendowski: «Il mio nome è circondato da un tale odio e da tanto terrore che nessuno riesce a distinguere la storia dalla leggenda».
Di sicuro la sua spietatezza e il suo coraggio erano proverbiali. Fece massacrare non solo cinesi e comunisti, nel suo cammino sanguinario di “bianco” eretico, ma anche gli ebrei che si rifiutavano di consegnare le loro ricchezze. Il saccheggio e la violenza sistematica erano il credo della Cavalleria Selvaggia, o Asiatica, come viene chiamata da alcune fonti. Una crudeltà utilizzata anche contro i suoi stessi uomini. Il suo dominio era infatti basato sulla paura. Particolarmente impopolare la disciplina che, su ispirazione degli ordini monastici-guerrieri del Medioevo come i Templari, imponeva ai cavalieri: la regola prevedeva il celibato, la castità assoluta, il divieto di godere di ogni tipo di divertimento, per concentrarsi esclusivamente sulla dimensione militare della lotta ai “rossi”. Bastava alzare un po’ troppo il gomito, per finire fra le mani dello “strangolatore”, il capo della polizia del barone, il boia Sipailov. Impiccagioni, fucilazioni, torture erano all’ordine del giorno nel regno mongolo di von Ungern, durato dal marzo all’agosto del 1921.
Nulla si sa di certo invece sul suo presunto “misticismo”, sull’alone di mago e di “semi-dio” immortale e invincibile che il mito ha voluto costruire attorno alla sua figura. Lazzeri e Mabire, fedeli alla leggenda, parlano di paganesimo e buddismo, anche se il barone rimase nominalmente per tutta la vita un cristiano riformato, come la sua famiglia di origine estone. Tuttavia Mabire, sulla scorta di Ossendowski, riporta alcune frasi illuminanti su quella che poteva essere la visione del mondo, solare, collegabile alle antichi radici pagane baltiche, del barone: «21 giugno 1920. Solstizio d’estate. Ho ordinato ai miei cosacchi di accendere dei fuochi sulle colline che circondano Dauria. I partigiani bolscevichi si chiederanno cosa stiamo preparando per loro. Molto semplicemente, un’altra rivoluzione, un po’ più terribile della loro. Loro adorano la stella rossa. Noi festeggiamo il sole giallo. Guerra di religione».
antichi culti pagani
E il giorno seguente annota: «Alcuni pastori buriati si sono aggirati per tutta la notte attorno ai nostri fuochi. Nonostante il buddismo, hanno qualche vaga nostalgia del culto solare. Non molto tempo fa l’Asia era bianca. Vi si adorava il fuoco, dal mar del Giappone alla Finlandia. Lo sciamanesimo resta la religione delle radici. I finlandesi, i bianchi dello Yang-Tze e gli ainu celebrano gli stessi misteri della terra, al ritmo ossessivo dei tamburi fatti con la pelle di renna». Il suo sogno era quello di «far rivivere tutti questi culti antichi. Infondere nell’Asia la nostalgia per il suo passato bianco».
L’atto finale della sua vita, il tradimento, i cavalieri mongoli che, di fronte alla prospettiva di attraversare la Cina per raggiungere il Tibet (l’ultima trovata del barone braccato dall’Armata Rossa), si danno alla fuga, tornano alle loro capanne e alle loro famiglie, racconta invece di un uomo sconfitto, giunto al termine del suo percorso di condottiero di un’armata Brancaleone asiatica. Consegnato da un suo ufficiale ai sovietici, confesserà durante il processo: «Non credo più alle teste coronate. I Romanov erano marci, come i Borboni o gli Hohenzollern. Tutto questo fa parte del vecchio mondo». Inutile difendere l’Ancien Régime, tanto vale seppellirlo in un mare di sangue. Perdere con onore fa parte della legge della guerra. Anche nella sconfitta quindi il barone sanguinario Ungern Khan è rimasto fedele alla sua missione: «Diventa ciò che sei».

Da: Libero, del 21 marzo 2009
di Andrea Colombo

Nessun commento: