venerdì 30 dicembre 2011

Le idee a posto - Antonio Medrano

L’indicazione che si può dare è semplice: vivere tutte le manifestazioni della vita in modo sacro, con una apertura verso l’alto e con un profondo senso di responsabilità. Se poi volessimo fare un esempio pratico, pensiamo al lavoro moderno che ogni giorno che passa è sempre più contrario all’essere umano. La dottrina tradizionale, in questo caso, offre dei chiari orientamenti esistenziali per difendersi dall’attacco disumano: ad esempio il distacco, la concentrazione su quello che si fa e l’azione senza ego.
Antonio Medrano

lunedì 19 dicembre 2011

Solstizio d'Inverno - 21 Dicembre






















Vi sono riti e feste, sussistenti ormai solo per consuetudine nel mondo moderno, che si possono paragonare a quei grandi massi che il movimento delle morene di antichi ghiacciai ha trasportato dalla vastità del mondo delle vette giù, fin verso le pianure.
Tali sono, ad esempio, le ricorrenze che come Natale ed anno nuovo rivestono oggi prevalentemente il carattere di una festa familiare borghese, mentre esse sono ritrovabili già nella preistoria e in molti popoli con un ben diverso sfondo, compenetrate da un significato cosmico e universale. Di solito, passa inosservato il fatto che la data del Natale non è convenzionale e dovuto solo ad una particolare tradizione religiosa, ma è determinata da una situazione astronomica precisa: è la data del solstizio d’inverno.
E proprio il significato che nelle origini ebbe questo solstizio andò a definire, attraverso un adeguato simbolismo, la festa corrispondente. Si tratta, tuttavia, di un significato che ebbe forte rilievo soprattutto in quei progenitori delle razze indoeuropee, la cui patria originaria si trovava nelle regioni settentrionali e nei quali, in ogni caso, non si era cancellato il ricordo delle ultime fasi del periodo glaciale. In una natura minacciata del gelo eterno l’esperienza del corso della luce del sole nell’anno doveva avere un’importanza particolare, e proprio il punto del solstizio d’inverno rivestiva un significato drammatico che lo distinguerà da tutti gli altri punti del corso annuale del sole. Infatti, nel solstizio d’inverno, il sole, essendo giunto nel suo punto più basso dell’eclittica, la luce sembra spegnersi, abbandonare le terre, scendere nell’abisso, mentre ecco che invece essa di nuovo si riprende, si rialza e risplende, quasi come in una rinascita. Un tale punto valse, perciò, nei primordi, come quello della nascita o della rinascita di una divinità solare. Nel simbolismo primordiale il segno del sole come “Vita”, “Luce delle Terre”, è anche il segno dell’Uomo. E come nel suo corso annuale il sol e muore e rinasce, così anche l’Uomo ha il suo “anno”, muore e risorge. Questo stesso significato fu suggerito, nelle origini, dal solstizio d’inverno, a conferirgli il carattere di un “mistero”. In esso la forza solare discende nella “Terra”, nelle “Acque”, nel “Monte” (ciò in cui, nel punto più basso del suo corso, il sole sembra immergersi), per ritrovare nuova vita. Nel suo rialzarsi, il suo segno si confonde con quello de “l’Albero” che sorge (“l’Albero della Vita” la cui radice è nell’abisso), sia “dell’Uomo cosmico” con le “braccia alzate”, simbolo di resurrezione. Con ciò prende anche inizio un nuovo ciclo, “l’anno nuovo”, la “nuova luce”. Per questo, la data in questione sembra aver coinciso anche con quella dell’inizio dell’anno nuovo (del capodanno). È da notare che anche Roma antica conobbe un “natale solare”: proprio nella stessa data, ripresa successivamente dal cristianesimo, del 24-25 dicembre essa celebrò il Natalis Invicti, o Natalis Solis Invicti (natale del Sole invincibile).
In ciò si fece valere l’influenza dell’antica tradizione iranica, da tramite avendo fatto il mithracismo, la religione cara ai legionari romani, che per un certo periodo si disputò col cristianesimo il dominio spirituale dell’Occidente. E qui si hanno interessanti implicazioni, estendendosi fino ad una concezione mistica della vittoria e dell’imperium.
Come invincibile vale il sole, per il suo ricorrente trionfare sulle tenebre. E tale invincibilità, nell’antico Iran, fu trasferita ad una forza dall’alto, al cosiddetto “hvareno”. Proprio al sole e ad altre entità celesti, questo “hvareno” scenderebbe sui sovrani e sui capi, rendendoli parimenti invincibili e facendo si che i loro soggetti in essi vedessero uomini che erano più che semplici mortali. Ed anche questa particolare concezione prese piede nella Roma imperiale, tanto che sulle sue monete, spesso ci si riferisce al “sole invincibile”, e che gli attributi della forza mistica di vittoria sopra accennata si confusero non di rado con quelli dell’Imperatore.
Tornando al “natale solare” delle origini, si potrebbero rilevare particolari corrispondenze in ciò che ne è sopravvissuto come vestigia, nelle consuetudini della festa moderna. Fra l’altro un’eco offuscata è lo stesso uso popolare di accendere sul tradizionale albero delle luci nella notte di Natale. L’albero, come abbiamo visto, valeva infatti come un simbolo della resurrezione della Luce, di là della minaccia delle notte. Anche i doni che il Natale porta ai bambini costituiscono un’eco remota, un residuo morenico: l’idea primordiale era il dono di luce e di vita che il Sole nuovo, Il “Figlio”, dà agli uomini. Dono da intendersi sia in senso materiale che in senso spirituale.
[…] Avendo ricordato tutto ciò, sarà bene rilevare che batterebbe una strada sbagliata chi volesse veder qui una interpretazione degradante tale da trascurare il significato religioso e spirituale che ha il Natale da noi conosciuto, riportando all’eredità di una religione naturalistica e per ciò primitiva e superstiziosa. […] Una “religione naturalistica” vera e propria non è mai esistita se non nella incomprensione e nella fantasia di una certa scuola di storia delle religioni […] oppure è esistita in qualche tribù di selvaggi fra i più primitivi. L’uomo delle origini di una certa levatura non adorò mai i fenomeni e le forze della natura semplicemente come tali, egli li adorò solo in quanto e per quel tanto che essi valevano per lui come delle manifestazioni del sacro, del divino in genere. […] la natura per lui non era mai “naturale”. […] Essa presentava per lui i caratteri di un “simbolo sensibile del sovrasensibile”. […] Un mondo di una primordiale grandezza, non chiuso in una particolare credenza, che doveva offuscarsi quando quel che vi corrispose assunse un carattere puramente soggettivo e privato, sussistendo soltanto sotto le specie di feste convenute del calendario borghese che valgono soprattutto perché si t ratta di giorni in cui si è dispensati dal lavorare e che al massimo offrono occasioni di socievolezza e di divertimento nella “civiltà dei consumi”.

Tratto da juliusevola.it

mercoledì 14 dicembre 2011

La biblioteca dello scriba

“Proprio questo è difatti il carattere più visibile dell’epoca moderna: il bisogno di un’agitazione incessante, di un mutamento continuo, di una velocità sempre crescente che così riflette quella secondo la quale oggi si svolgono gli avvenimenti.” Rene Guenon


lunedì 12 dicembre 2011

Inagurazione Centro Studi Aurhelio


Giovedì 22 dicembre, ore 18.00, Via Aurelia 571A - Santa Marinella RM

Inaugurazione Natalizia nel segno del Solstizio d'Inverno

Aperitivo e auguri natalizi

Adriano Romualdi




















Atti del convegno "L'Uomo, l'Azione, il Testimone Convegno sulla figura e l'opera di Adriano Romualdi nel trentesimo anniversario della scomparsa."

Contributi di:

"Adriano Romualdi: la filosofia di Platone, Nietzsche, Evola" Prof.Rodolfo Sideri.
"Frammenti e immagini di una amicizia" Prof. Mario Michele Merlino
"Dal mito dell'Europa al nuovo nazionalismo europeo" Maurizio Rossi.
"Adriano Romualdi, pensatore politicamente scorretto" Dott. Gianfranco De Turris.
"La Tradizione Perenne in Adriano Romualdi" Dott. Tommaso Romano.

Pagine: 64, Raido, Prezzo: €5.00 (solo per i soci)

martedì 6 dicembre 2011

Bhagavad-Gītâ. Commento di versi scelti

Fascicolo n. 43 - Documenti per il Fronte della Tradizione

Bhagavad-Gītâ. Commento di versi scelti
A cura di Mario Polia

Pp. 38 - € 4,00

PREMESSA

La Bhagavad-Gītâ, che tradotta dal sanscrito significa letteralmente “Il canto del Signore Splendente”, è l’opera nella quale l’Essere Supremo, parla ad un Guerriero, Arjuna. Egli è un uomo puro, perché è un uomo intrepido che combatte per la sua gente e per la sua Patria, ma è ancora più puro perché è colto dal dubbio. L’opera, infatti, inizia con Arjuna che esprime dei dubbi sul fatto di dover combattere contro coloro che gli sono legati, contro i propri parenti, e vuole chiarire questo dubbio. L’auriga del carro su cui si trova, colui che tiene le redini dei cavalli e che simbolicamente rappresenta la guida dell’anima e della forza del guerriero è l’Essere Supremo, in una delle sue tante accezioni, Krsna. Il simbolismo del carro sul quale sono posti il guerriero e il suo auriga, riguarda il corpo: nel carro quadrato (il quattro è il numero della materia) coesistono due principi, di cui uno è Arjuna, il guerriero, l’altro è Krsna, colui che conduce i cavalli, ovvero i sensi e le forze dell’anima, alla vittoria. Nella cavalleria medievale abbiamo una simbologia simile, ovvero il cavallo con sopra il cavaliere, che rappresenta l’anima che dirige il corpo al compimento del dovere; sui sigilli templari si trovano due cavalieri sullo stesso cavallo, a rappresentare due nature, l’anima e lo spirito: da una parte la psyche, il coraggio, la forza e dall’altra il nous greco, l’istinto limpido che porta il guerriero a compiere il suo dovere. Arjuna e Krsna sono i due aspetti dell’essere umano, la componente terrestre e quella divina, di cui noi solitamente riusciamo a vedere solo la prima, cioè quella che si manifesta ai nostri sensi, ma non vediamo la parte nascosta e divina.
Quindi Arjuna, prima di combattere, viene preso dal dubbio e getta via il suo arco, rinunciando al combattimento, e solo dopo aver chiarito tutti i suoi dubbi, tramite il colloquio con l’Essere Supremo, che è allo stesso tempo fuori e dentro di lui, riprenderà il suo posto di combattimento. Il fatto di essere preso dal dubbio per poi superarlo è la cosa più importante per il guerriero, che in questo modo supera la propria componente umana per tendere alla perfezione. Non essere mai presi dal dubbio significa essere o ignoranti o stupidi, poiché il dubbio è una componente sempre presente nella nostra vita, e il valore del guerriero si dimostra nella capacità di superarlo. Il simbolismo di Krsna e Arjuna è presente anche in altri miti europei, come quello di Romolo e Remo, che vengono abbandonati in una cesta nella acque del fiume Rumon: essi rappresentano le due componenti presenti nella persona e la cesta rappresenta proprio il corpo nel quale tali principi si trovano. Uno è il principio Solare e Superiore, Romolo, l’altro è il principio terreno e individualista, Remo. Tutta l’opera ruota attorno al concetto di “azione disinteressata”, akarman in sanscrito, ovvero un’azione che prescinde dai suoi frutti e che non è azione in senso stretto (agire senza agire).
Nella Bhagavad-Gītâ ci sono le basi della civiltà europea, soprattutto dal punto di vista spirituale, il quale supera i moderni confini meramente politici, arrivando a comprendere anche paesi come l’India e l’Iran, vista la comune matrice Indoeuropea da cui tale sapienza deriva. L’Europa sarà tale quando potrà di nuovo riconoscersi nel pensiero Arya (dalla radice “ar”, che significa eccellenza e da cui derivano vari termini come aristhos, arethè, armonia, ritus, ritmo), quello di una superiore razza (1) dello spirito da cui fu creata la Bhagavad-Gītâ. L’insegnamento dell’akarman ossia dell’azione senza azione infatti si può trovare in altre opere come l’Iliade, l’Odissea o l’Eneide, appartenenti anch’esse al nostro passato europeo; il mondo moderno, al contrario, fa di tutto per spingere l’umanità a compiere azioni solo per ottenere un tornaconto, un personale profitto. Studiare e riscoprire questi antichi testi è un dovere per riappropriarci della nostra dignità e consapevolezza di Uomini nel senso più alto del termine, appartenenti al grande progetto della Tradizione.

(1) “Ariana” è, infatti, la caratteristica degli uomini che appartengono ad una delle tre caste (sacerdoti, guerrieri, produttori). Non è derivante dall’appartenenza ad una razza biologica (del sangue), bensì da una qualità spirituale.

RAIDO

mercoledì 23 novembre 2011

[La biblioteca dello scriba]

“Coloro che fossero tentati di cedere allo scoraggiamento debbono pensare che nulla di quanto viene compiuto in quest’ordine può mai andar perduto; che il disordine, l’errore e l’oscurità possono trionfare solo in apparenza e in modo affatto momentaneo; che tutti gli squilibri parziali e transitori debbono necessariamente concorrere alla costituzione del grande equilibrio totale e che nulla potrà mai prevalere in modo definitivo contro la potenza della verità: la loro divisa sia quella adottata in altri tempi da certe organizzazioni iniziatiche dell’Occidente: Vincit omnia Veritas.”
Rene Guenon

venerdì 18 novembre 2011

La sede del Centro Studi Aurhelio

E' finalmente attiva la sede del Centro Studi Aurhelio

Si trova a Santa Marinella in Via aurelia 571 A, per il momento le aperture della settimana sono limitate a due volte la mattina nei giorni dispari. Lunedì e Mercoledì dalle 11.00 alle 12.30 e il pomeriggio nei giorni pari Martedì e Giovedì dalle 16 alle 18. Il venerdì ed il sabato in ragione delle attività da svolgere.





Per qualsiasi richiesta o necessità siamo sempre raggiungibili sull'email:
cst.aurhelio@gmail.com

mercoledì 26 ottobre 2011

Finalmente Casa Aurhelio

Il lavoro svolto in questi due anni ci ha portato ad entrare finalmente in quella che sarà la nostra prossima casa. Una sede dove poter sviluppare le nostre attività, le nostre riunioni, i nostri incontri di formazione. Ora non ci resta che lavorare per renderla bella ed accogliente. Il lavoro di ogni singolo, secondo la proporzione del " a ciascuno il suo", sarà foriero di uno spazio qualificato per noi, per i nostri simpatizzanti, per la nostra cittadina e per tutto il comprensorio.

Centro Studi Aurhelio

mercoledì 28 settembre 2011

Arianità della dottrina del risveglio

Tratto da "La Dottrina del Risveglio", di Julius Evola



Resta da dire qualcosa circa l’«arianità» della dottrina buddhista. Il nostro uso del termine «ario» in ordine a tale dottrina si giustifica anzitutto direttamente con i testi. Nel canone, ricorre dovunque il termine ariya (in sanscrito âriya), che vuole appunto dire «ario». Aria è detta la via del risveglio – ariya magga; arie sono le quattro verità fondamentali – ariya saccâni; ario il metodo di conoscenza – ariya-naya; ariya è detto l’insegnamento – in prima linea quello che accusa la contingenza del mondo – il quale a sua volta si rivolge agli ariya: si parla della dottrina, come di quella che non al volgare, ma solo agli ariya è accessibile ed intelligibile. Vi è chi ha voluto tradurre il termine ariya con «santo». Ma questa è una traduzione imperfetta, anzi sfasata, data la divergenza effettiva esistente fra ciò di cui si tratta, e tutto quello a cui sùbito si pensa in Occidente quando si parla di «santità». Anche la traduzione di ariya con «nobile» o «sublime» è poco adeguata. Si tratta di significati successivi assunti dal termine, i quali non corrispondono alla pienezza di quello originario, ad un tempo spirituale, aristocratico e razziale, significato che, malgrado tutto, nel buddhismo si è conservato in larga misura. È così che orientalisti, come per es. il Rhys Davids e lo Woodward, hanno ritenuto che sia meglio non tradurre affatto il termine ed hanno lasciato ariya dovunque ricorre nei testi, sia come aggettivo, sia come sostantivo designante una determinata classe di esseri. Gli ariya sono, nei testi del canone, lo Svegliato, gli svegliati e coloro che ad essi sono uniti perché intendono, accettano e seguono la dottrina ariya del risveglio.

È opportuno sottolineare l’arianità della dottrina buddhista per varie ragioni. In primo luogo, per prevenire chi, contro di essa, volesse avanzare la pregiudiziale dell’esotismo e dell’asiatismo, e parlasse di una sua estraneità rispetto alle «nostre» tradizioni e alle «nostre» razze. Ebbene, va ricordato che l’unità primordiale di sangue e di spirito delle razze bianche che crearono le massime civiltà d’Oriente e d’Occidente, quella irànica e indù non meno di quelle ellenica, romana antica, germanica, è una realtà. Il buddhismo ha il diritto di dirsi ario, perché riflette in alto grado lo spirito delle comuni origini, perché ha conservato parti notevoli di un retaggio che, come si è già detto, gli Occidentali hanno invece via via dimenticato, sia per opera di processi involutivi endogeni, sia perché proprio essi – assai più che non gli Arii d’Oriente – hanno soggiaciuto, specie nel campo religioso, ad influenze estranee. Come si è accennato, tolti alcuni elementi periferici, l’ascesi del primo buddhismo nella sua chiarezza, nel suo realismo, nella sua precisione e nella sua salda e ben articolata struttura, ha effettivamente del «classico», riflette cioè il più elevato stile dell’antico mondo ario-mediterraneo.

E non è soltanto quistione di forma. Una intima congenialità si palesa fra lo spirito dell’ascesi annunciata dal principe Siddharta e quell’accentuazione dell’elemento intellettuale e olimpico, che contrassegna il platonismo, il neoplatonismo e lo stesso stoicismo romano. Altri punti di contatto si riscontrano là dove il cristianesimo fu rettificato appunto da un sangue ario conservatosi maggiormente puro, intendiamo nella cosidetta mistica germanica: si ricordi il Meister Eckhart della predica sul distacco, sull’Abgeschiedenheit, o della teoria dell’«anima nobile»; si ricordi anche un Tauler e un Silesio. Qui, come in ogni altro campo, l’insistere sull’antitesi di Oriente ed Occidente è frivolo. L’opposizione vera è in primo luogo quella che esiste fra le concezioni di tipo moderno e le concezioni di tipo tradizionale, siano, queste ultime, occidentali o orientali; in secondo luogo, è quella che esiste fra le creazioni schiette di uno spirito e di un sangue ario e quelle che, invece, in Oriente come in Occidente, hanno risentito di influenze non arie. Come è stato giustamente rilevato dal Dahlke, fra le tradizioni più grandi e più antiche il buddhismo è quella che piú si può dire di pura origine aria.

E ciò vale anche in un senso specifico. Se il termine ario, generalizzando, lo si può applicare all’insieme delle razze indoeuropee con riguardo alla loro comune origine (la patria originaria di tali razze, l’airyanem-vaêjô, secondo il ricordo distintamente conservatosi nell’antica tradizione irànica, fu una regione iperborea o, piú genericamente, nordico-occidentale), pure in seguito esso è stato una designazione di casta. Come ârya valse essenzialmente una aristocrazia, opposta, nello spirito e nel corpo, sia a razze primitive, ibride e «demoniche» quali quelle delle popolazioni kosaliane e dravidiche trovate nei territori asiatici conquistati; sia, più in genere, al substrato corrispondente a quel che oggi si chiamerebbe probabilmente la massa proletaria e plebea, nata, in via normale, per servire, la quale, in India come nel mondo greco-romano, fu esclusa dai culti luminosi caratterizzanti le caste superiori, patrizie, guerriere e sacerdotali.

Ebbene, il buddhismo è da dirsi ario anche in questo senso quasi castale, malgrado l’attitudine, di cui diremo in séguito, da esso assunto di fronte al sistema delle caste dei suoi tempi. Chi poi venne chiamato lo Svegliato, cioè il Buddha, era il principe Siddharta, secondo alcuni figlio di re, secondo altri, almeno della più pura ed antica nobiltà guerriera della stirpe dei Çâkya, proverbiale per la sua fierezza – era un modo di dire: «fiero come un Çâkya». Questa schiatta, a sua volta, come le piú illustri ed antiche dinastie indú, si rifaceva alla cosidetta «stirpe solare» – sûrya vamça - e all’antichissimo re Ikçvâku. «Lui, di stirpe solare» – si legge, circa il Buddha. Ed egli lo dichiara: «Discendo dalla dinastia solare e sono di nascita un Çâkya» ed anche come asceta che ha rinunciato al mondo rivendica la dignità regale, la dignità di un re ariya. La tradizione vuole che in lui si ammirasse «una forma adorna di tutti i segni della bellezza e cinta da una aureola radiosa». Ad un sovrano che, senza conoscerlo, l’incontra, egli dà subito l’impressione di un suo pari: «Hai un corpo perfetto, sei risplendente, ben nato, di nobile aspetto, hai un colorito dorato, candidada dentatura, sei forte. Tutti i segni che sei di nobile nascita sono nella tua forma, tutti i segni dell’uomo superiore». Un temutissimo bandito si chiede stupefatto, incontrandolo, chi sia «questo asceta che viene solo, senza compagni, come un conquistatore». Non solo nel corpo e nella tenuta sono in lui palesi le caratteristiche di un kshatriya, di un nobile guerriero di alto lignaggio, ma la tradizione vuole che egli presentasse appunto i «trentadue attributi» che secondo un’antica dottrina brahmanica contrassegnerebbero l’«uomo superiore» – mahâpurisa-lakkhânâni - colui, per il quale «esistono soltanto due possibilità, senza una terza»: o, restando nel mondo, divenire un cakravatin, cioè un re dei re, un «sovrano universale», il prototipo ario del «Signore del mondo», ovvero rinunciando al mondo, divenire un perfetto svegliato, il Sambuddha, «colui che ha rimosso il velo». La leggenda vuole che al principe Siddharta si fosse già preannunciato, nella visione fatidica di una ruota turbinosa, un destino d’impero, da lui però respinto in nome dell’altra via, della via verso la pura trascendenza. Ed è parimenti significativo che, secondo la tradizione, il rito funerario per il Buddha, conformemente alla sua volontà, non sarebbe stato quello di un asceta, ma quello di un sovrano imperiale, di un cakravartin. Malgrado l’attitudine assunta dal buddhismo di fronte al problema delle caste, si vuole, del resto, che in genere i bodhisattva, coloro che potranno un giorno divenire degli Svegliati, non nascano mai in una casta contadinesca o servile, ma o in quella guerriera o in quella brahmana, cioè nelle due più alte caste della gerarchia aria: anzi si dice, in relazione ai tempi, essenzialmente in quella guerriera, fra i kshatriya.

Ora questa nobiltà aria e questo spirito guerriero si riflettono nella stessa dottrina del risveglio. L’assimilazione della ascesi buddhista alla guerra e delle qualità dell’asceta alle virtù del guerriero e dell’eroe sono ricorrentissime nei testi canonici: «lottante asceta con petto pugnante», «avanzata con i passi del combattente», «eroe vincitore della battaglia», «supremo trionfo della battaglia», «condizioni favorevoli pel combattimento», qualità di «un guerriero buono per il re, ben degno del re, che è un ornamento del re», ecc. – fino a massime, come questa: «morte in battaglia è pur meglio che vivere sconfitti». Quanto alla «nobiltà», essa qui si lega all’aspirazione verso una libertà sovrannaturalmente potenziata. «Come toro, ho spezzato ogni laccio» – dice lo stesso principe Siddharta. «Scaricato dal peso, ha distrutto i vincoli dell’esistenza» – è il tema ricorrente di continuo nei testi con riferimento a chi ne segue la via. Come «sommi di difficile accesso, simili a leoni solitari» sono designati i Compiuti. Lo Svegliato, quale «santo superbo è salito sulle cime piú eccelse dei monti, si è spinto nelle selve piú lontane, è disceso in abissi profondi». Egli può dire: «Non servo nessuno, non ho bisogno di servire nessuno», idea, che fa ricordare quella «razza autonoma e immateriale», «senza re» perché è essa stessa regale, di cui si ebbe a parlare anche in Occidente. È «asceta, puro, conoscitore, libero, sovrano».

Questi sono alcuni degli attributi che vedremo ricorrere già nei testi più antichi sia per il Buddha, sia per coloro che procedono sulla sua stessa via. La parte che in tali attributi ha l’abituale esagerazione di ogni glorificazione, non pregiudica il loro significato, almeno, di testimonianze in ordine alla idea generale che sempre si ebbe sia della via e dell’ideale indicati dal principe Siddharta, sia della di lui razza spirituale. Il Buddha è eminentemente il tipo dell’asceta regale e la sua naturale controparte, come dignità, è colui che, come un Cesare, poté dire comprendere, la propria stirpe, la maestà dei re cosí come la sacrità degli dèi, nel potere dei quali stanno anche coloro, che sono dominatori di uomini. Si è visto or ora che proprio questo senso ha, del resto, l’antica tradizione relativa all’essenziale identità della natura di colui che può essere soltanto o figura imperiale, o perfetto Svegliato. Ci troviamo presso gli àpici del mondo spirituale ario.

Per l’arianità dell’insegnamento buddhistico originario, una particolare caratteristica è l’assenza di quelle manie proselitarie, che quasi senza eccezione sono in ragione diretta col carattere plebeo, antiaristocratico, di una credenza. Uno spirito ario ha troppo rispetto per l’altrui persona e troppo spiccato il senso della propria dignità per cercar di imporre ad altri le proprie idee, anche quando sa che esse sono giuste. E non è senza relazione a ciò che nel ciclo originario delle civiltà arie, sia d’Oriente, sia d’Occidente, non troviamo nemmeno figure divine che si preoccupino troppo degli uomini, che quasi corrano dietro ad essi per attirarli e «salvarli». Le cosiddette religioni di salvazione – le Erlosungsreligionen, come si dice in tedesco – non appaiono, in Oriente come in Occidente, che tardivamente, presso ad un allentamento della tensione spirituale originaria, ad un offuscamento della coscienza olimpica e, non per ultimo, ad influssi di elementi etnico-sociali inferiori. Che le divinità poco possano per gli uomini, che sia fondamentalmente l’uomo l’artefice del proprio destino in ordine agli stessi sviluppi oltremondani di esso – questa veduta caratteristica del buddhismo originario ne mette bene in luce la diversità rispetto a molte forme tarde, soprattutto mahayâniche, nelle quali trovò modo di infiltrarsi il motivo di esseri mitici affaccendantisi intorno agli uomini per condurli tutti alla salvezza.

In fatto di metodo e di insegnamento, nei testi originari vediamo dunque che il Buddha espone la verità come egli l’ha scoperta, senza imporsi a nessuno né ricorrere a mezzi estrinseci per persuadere o «convertire». «Chi ha occhi, vedrà le cose» – è la formula sempre ricorrente nei testi. «Venga da me un uomo intelligente – è scritto – non tortuoso, non simulatore, un uomo dritto: io l’istruisco, gli espongo la dottrina. Seguendo l’istruzione, dopo non molto tempo egli stesso riconoscerà, egli stesso vedrà, che così invero ci si libera completamente dai vincoli: dai vincoli, cioè, dell’ignoranza». Segue il paragone del bambino che si libera gradamente dagli impedimenti, paragone del tutto corrispondente a quello della «maieutica» platonica, dell’arte di aiutare le nascite. Ed ancora: «Io non vi sforzerò, come il vasaio con la creta cruda. Riprendendo riprendendo, io parlerò, premendo premendo. Chi è sano resisterà». Del resto, l’originaria intenzione del principe Siddharta, una volta conseguita la conoscenza della verità, era di non comunicarla a nessuno, non per malanimo, ma riconoscendone la profondità e prevedendo l’incomprensione dei più. Venuto poi a riconoscere che in fondo vi sono anche più nobili nature, menti meno offuscate, per compassione espone la dottrina, mantenendo però sempre distanza, distacco e rispetto. Che i discepoli vengano o meno a lui, che seguano o no i precetti ascetici, «sempre lo stesso egli rimane». Ecco il suo stile: «Conoscere la persuasione e conoscere la dissuasione; conoscendo la persuasione e conoscendo la dissuasione non persuadere e non dissuadere: esporre solo la realtà». «È mirabile – viene anche detto – è straordinario come nessuno esalti la propria e disprezzi l’altrui dottrina in un Ordine, in cui pur vi son tanti guidatori per mostrarla».

Anche questo è stile ario. Certo, la potenza spirituale vivente nel Buddha non poté non manifestarsi, talvolta, in modo quasi automatico, affermandosi direttamente e imponendo un riconoscimento. Perciò come «prima orma dell’elefante» viene per esempio indicato il fatto che dotti, esperti dialettici i quali aspettavano al guado il Buddha per stroncarlo con i loro argomenti, al suo apparire chiedono solo di udire la dottrina, o quello che, quando il Buddha affronta una discussione, la sua parola non può fare a meno di agire «come un furioso elefante o una fiammeggiante vampa». O si ha il caso dei suoi antichi compagni che, credendo che avesse abbandonata la via dell’ascetismo, si proponevano di non accoglierlo, ma poi sùbito gli vanno incontro; o quello del feroce bandito Angulimâyo al quale la figura maestosa del Buddha s’impone. Certo è tuttavia, che il Buddha, nella sua superiorità, si è sempre astenuto dall’usare mezzi indiretti di persuasione e, in ogni caso, mai di quelli che fanno leva sulla parte irrazionale, sentimentale o emotiva dell’essere umano. Anche questa regola è importante: «Voi non dovete, o discepoli, mostrare ai laici il miracolo dei poteri supernormali. Chi farà ciò è colpevole di una cattiva azione». Ciò comporta la rinuncia al «miracolo» come mezzo estrinseco per suscitare una «fede». La propria persona va messa da parte: «In verità, i nobili figli espongono le loro conoscenze superiori in modo simile, presentando la verità, senza riferirsi come che sia allo lora persona». «Che dunque? – dice il Buddha a chi da tempo anelava di vederlo – Chi vede la legge vede me e chi vede me vede la legge. In verità, vedendo la legge si vede me e vedendo me si vede la legge». Svegliato egli stesso, il Buddha vuole solamente propiziare il risveglio in chi ne è capace: risveglio, in primo luogo, di una dignità e di una vocazione, in secondo luogo, risveglio di una intuizione intellettuale. Chi è capace d’intuire – è detto – non può non approvare. Il miracolo nobile, «conforme alla natura aria» – ariyaiddhi - opposto a quello che si basa su di una fenomenologia estranormale e che vien giudicato non ario – anariyaiddhi - si riferisce proprio al primo punto, è il «miracolo dell’insegnamento» che desta la facoltà di discernere, che fornisce una nuova, giusta misura per tutti i valori, per la quale la formula canonica più tipica è: «Così è – egli intende – Vi è il nobile e vi è il volgare, e vi è una libertà più alta di questa percezione dei sensi». Per il secondo punto, ecco un passo caratteristico: «Il suo cuore [quello del discepolo] si sentì ad un tratto pervaso di sacro entusiasmo e tutta la sua mente si dischiuse pura, chiara, splendente come il disco luminoso della luna: e gli apparve intera la verità». Tale è la base dell’unica «fede», dell’unica «retta fiducia», che nell’ordine degli aríya è tenuta in conto: «fiducia motivata, radicata nella visione, salda», tale che «nessun penitente o sacerdote, nessun dio o diavolo, nessun angelo o chi altri nel mondo può distruggerla».

orse ad un ultimo punto vale la pena di accennare brevemente. Il fatto che il Buddha nei testi pâli non appare come un essere sovrannaturale sceso in terra a diffondere una «rivelazione», ma come colui che espone una verità da lui stesso veduta e indica una via che lui stesso si è aperta, come colui che, giunto egli stesso all’altra riva, aiuta altri a passarvi, una tale traversata avendola compiuta con le proprie forze, senza un maestro che abbia dovuto illuminarlo – questo fatto non deve condurre ad umanizzare oltre misura la figura del Buddha. Anche a prescindere dalla teoria dei bodhisattva, la quale troppo spesso risente di un elemento fiabesco e si è definita solo in un periodo posteriore, nei testi originari la concezione del cosiddetto kolankola ci rende sempre possibile d’intendere nel Buddha la riemergenza di un principio luminoso già accesosi in precedenti generazioni: cosa che si accorderebbe con quanto diremo sul significato storico della dottrina buddhista del risveglio. In ogni caso, quali pur siano gli antecedenti, è arduo tracciare un limite fra quel che è umano e quel che non lo è più, quando si tratta di essere che ha realizzato in sé l’elemento libero da morte – amata -, che si presenta come incarnazione viva di una legge centrata in ciò che è assolutamente trascendente e che da nulla può esser «incluso» – apariyâ-pannam. Anche qui si può fare una quistione di differenza di natura. Dipende dalla distanza che i vari esseri sentono fra sé e la realtà metafisica il fatto, che una forza venga vissuta come «grazia», che una conoscenza si presenti con carattere di «rivelazione» nel senso divenuto prevalente in Occidente a partire dal profetismo ebraico, che l’annunciatore di una legge assuma tratti «divini» anziché presentarsi come colui che ha distrutto l’ignoranza e si è «ridestato». Questo divario non dice, in sé, assolutamente nulla in ordine alla dignità e al livello spirituale di un insegnamento, come pure della stessa persona del suo annunciatore. Certo è solo, che il primo caso – quello delle «rivelazioni» e degli dèi-uomini – non può non dare un senso di estraneità ad uno spirito ario, ad un «nobile figlio» – kula-putta - specie in una epoca in cui nell’umanità non si era ancor del tutto offuscato il ricordo delle origini.

Infine, una breve considerazione sul Buddha storico come modello. Se egli non si presenta dunque come un dio, pure, come si è detto, da tutta la tradizione originaria egli è stato considerato come un uomo giunto con le sue sole forze al risveglio, quindi al superamento del limite individuale. Come kshatriya, il principe Siddharta ebbe naturalmente la usuale iniziazione di casta, ma non è attestato nessun suo collegamento con qualche organizzazione esistente quale condizione per la sua realizzazione. Devesi dunque pensare ad uno di quei casi eccezionali nei quali un superamento della condizione umana e lo sbocco nella trascendenza sono avvenuti per via autonoma. Ci si potrebbe riferire alla violenza che, secondo il detto evangelico, la porta dei Cieli può subire, o anche al Parsifal di Wolfram von Eschenbach. Dal Buddha è nata una tradizione e probabilmente sono nate anche linee di trasmissione iniziatica fuor dalle semplici scritture. Ma se ci si riferisce al Buddha, la verità è quella ora accennata: egli fu principio a sé e attesta la possibilità di una ascesa autonoma, presso la quale una possibile, contemporanea discesa di forze superiori, dall’alto, fino ad una unità, deve essere considerata come da essa condizionata.

Avendo accennato all’eccezionalità di una simile congiuntura, l’esempio del Buddha non deve andar incontro alle fisime di «autoiniziazione» di certi spiritualisti moderni ma, nel contempo, deve porre anche un limite all’insistere, da parte di alcuni elementi tradizionalisti, sull’imprescindibilità di un collegamento «regolare» e quasi burocratico con organizzazioni per chiunque aspiri al superamento dell’esistenza condizionata. Il fatto è che un tale collegamento potrà essere per molti necessario, ma per un numero ancor più grande di persone esso è così poco sufficiente, da rendere legittima la domanda della misura in cui sia, dopo tutto, anche necessario. Qualcosa come lo spirito e l’atteggiamento del Buddha storico è una qualificazione essenziale per qualsiasi vera realizzazione iniziatica, cioè analoga a quella della via buddhista del risveglio. 

Julius Evola

mercoledì 24 agosto 2011

Harlock Lucania 2011 > Quota30

Obiettivo (quasi) raggiunto

Ce l'abbiamo messa tutta e siamo arrivati vicino ad un obiettivo che quest'anno per via della crisi e del cambiamento di metodo poteva risultare inarrivabile. Invece ce l'abbiamo fatta grazie al contributo di molti e soprattutto grazie a quel metodo abbiamo riconosciuto amici e menefreghisti. Per i più, una occasione per ritrovarci insieme e sostenere le azioni virtuose, per gli altri una ennesima occasione persa. Chi dà a chi è in difficoltà, a chi ha bisogno, alle azioni di salvaguardia delle comunità virtuose, coltiva il proprio essere. Chi pensa di potercela fare da solo, si rallegrerà del proprio isolato individualismo affastellandosi in un velleitarismo politico che non da frutti ormai da decenni. Non venga a blaterare di valori e di scenari alla "volemose bene". Il dado è tratto. I ragazzi di Harlock hanno gioito. Questo è un dato. Grazie di Cuore.

Centro Studi Aurhelio

lunedì 1 agosto 2011

Harlock Lucania 2011 > Quota30












Anche quest’anno il Centro Studi Aurhelio, a sostegno della Casa Famiglia Harlock, decide di ripetere il progetto Quota 30 che lo scorso anno ha riscosso partecipazione e successo. L’iniziativa consiste nel trovare, minimo, 30 sottoscrittori per una quota di 10 euro cadauna, il cui totale garantirà ai ragazzi una serena permanenza in terra lucana. Durante la settimana raccoglieremo i fondi e ci vedremo per un aperitivo solidale Sabato 6 Agosto alle 12 a Santa Marinella, presso il Bar dei Portici sulla Via Aurelia, come termine ultimo.

Harlock è una struttura, in provincia di Viterbo, che ospita ragazzi che necessitano di un collocamento alternativo alla famiglia, almeno in una fase della loro vita. Si tratta di Minori che rientrano in progetti alternativi alla detenzione carceraria, minori vittime di abusi e minori che hanno ottenuto l’asilo per la precaria e pericolosa situazione nei loro paesi di origine o minori stranieri non accompagnati. L’equipe si occupa dell’analisi e soluzione delle loro più elementari necessità oltre a quelle più complesse, come il disagio psicologico, reperimento documenti e avviamento al lavoro. I ragazzi frequentano regolarmente la scuola, studiano, praticano sport e, visto che se lo sono meritati, si vuole mandarli circa un mese in vacanza. Tale volontà purtroppo può rimanere tale, vista la mancanza di fondi. Il Centro Studi Aurhelio, rinnova la sua azione di sostegno per le realtà virtuose e promuove anche quest’anno il progetto Harlock Lucania 2011>Quota30. L’iniziativa consiste nel trovare, minimo, 30 sottoscrittori per una quota di 10 euro cadauna, il cui totale garantirà ai ragazzi una serena permanenza in terra lucana. Naturalmente il progetto si avvale anche del sostegno di alcune realtà locali e di realtà associative di Tramutola – PZ. Per ognuno di noi sarà un piccolo sforzo, ma il risultato potrà essere grande.
Trasmettere l’idea che si ottengono i frutti solo con l’impegno ed il sacrificio.

Centro Studi Aurhelio, idee che diventano azioni.
Contatti, sostegno, info: cst.aurhelio@gmail.com

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Operazione atterraggio Arcadia in Lucania

Questo anno la ciurma e i pirati della casafamiglia “Harlock”, caleranno sul paese di Tramutola (Pz) per giocare un torneo di calcetto, andare in piscina, fare gite al fiume ed in montagna e chi più ne idèa, più ne realizza. I ragazzi saranno accolti insieme agli educatori in una struttura messa a disposizione dalla Protezione Civile e con annessa cucina e servizi. Abbiamo dei basisti sul territorio: l’Associazione politico-culturale “Tramutola viva”. Con i nostri ragazzi sarà ancora più viva, forse troppo. Sarebbe bello poter avere una divisa calcistica dedicata all’evento, magliette ed un po’ di vil pecunia per pizzate, spesa e via attivandosi.

Siate arrembanti nel supportarci. Piratescamente grazie. I Ragazzi e l’Equipe

Casa Famiglia HARLOCK
01016 Tarquinia (VT) - Alberata Dante Alighieri 29
Tel/Fax 0766855179 - casafamiglia.harlock@gmail.com

lunedì 9 maggio 2011

Cittadella - Saint Exupèry

Un libro bellissimo e misterioso. Un abbozzo di romanzo, contenuto nella famosa valigetta che Antoine de Saint Exupéry - autore dell'indimenticabile Piccolo Principe - portava sempre con sé e dalla quale si separò solo una volta: prima di partire per il suo ultimo volo di guerra, dal quale non sarebbe più tornato. Lo si può leggere mille volte e trovarvi sempre qualcosa di nuovo, di inaspettato, di vero. Leggiamolo, di nuovo.

Così alla sera io cammino a passi lenti tra il mio popolo e tacitamente lo circondo del mio amore. Sono soltanto inquieto per coloro che ardono di una vana luce, per il poeta pieno d’amore per la poesia ma che non scrive il suo poema, per la donna innamorata dell’amore ma che, non sapendo scegliere, non può divenire; tutti pieni di angoscia, poiché sanno che io li potrei guarire di questa angoscia se permettessi loro di fare quell’offerta che esige sacrificio, scelta e dimenticanza dell’universo. Perché il tal fiore esclude innanzi tutto ogni altro fiore. E tuttavia solo a questa condizione esso è bello. Così avviene per l’oggetto dello scambio. E lo stolto che va a rimproverare a quella vecchia il suo ricamo col pretesto che avrebbe potuto tessere qualcos’altro, preferisce dunque il nulla alla creazione. Così cammino e sento salire la preghiera nell’odore dell’accampamento nel quale tutto matura e si forma in silenzio, lentamente, senza quasi che ci si pensi. Il frutto, il ricamo o il fiore, per divenire, è nel tempo che sono immersi.

Durante le mie lunghe passeggiate ho capito che il valore della civiltà del mio impero non riposa sulla qualità dei cibi ma sulla qualità delle esigenze e sul fervore del lavoro. Questo valore non è dato dal possesso, ma dal dono di sé. E’ civilizzato innanzi tutto quell’artigiano che si ricrea nell’oggetto; in compenso egli diviene eterno, in quanto non teme più di morire. Ma quest’altro che si circonda di oggetti di lusso comperati dai mercanti, non ne trae alcun vantaggio se non ha creato nulla, anche se nutre il suo sguardo di cose perfette. Conosco quelle razze imbastardite che non scrivono più i loro poemi ma li leggono, che non coltivano più la loro terra ma si fondano anzitutto sugli schiavi. Contro di loro le sabbie del Sud preparano incessantemente nella loro miseria creatrice le tribù vive che saliranno alla conquista delle loro provviste morte. Non amo chi è sedentario nel cuore. Quelli che non offrono nulla non divengono nulla. La vita non servirà a maturarli, e il tempo per loro fluisce come una manciata di sabbia disperdendoli. Che cosa offrirò a Dio in loro nome?

Da Cittadella di A. de Saint-Exupéry

giovedì 20 gennaio 2011

Riflessioni su Risorgimento ed Unità d'Italia

Continuiamo la pubblicazione di importanti contributi sulle questioni relative all'unità d'Italia, al risorgimento ed al rapporto con la destra radicale e moderata.

«ALL’ITALIA DI OGGI SERVONO ÉLITES

PORTATRICI DI UNA CULTURA UNITARIA»

Intervista al prof. Sandro Consolato

ROMA - Nel Risorgimento italiano le idee federaliste non mancano. Molti pensatori vedono proprio in questo modello organizzativo lo sbocco del processo unitario nazionale. In ambito moderato, ad esempio, ben prima del 1861 si progetta una Italia federale, come somma degli Stati esistenti, guidata da una figura carismatica e super partes (il pontefice). A sostenere questa linea è, principalmente, Vincenzo Gioberti, secondo il quale il Risorgimento non consiste nella creazione di una civiltà nuova, bensì nel riannodarsi del filo della storia nazionale. Una reinterpretazione del presente, insomma, fondata sui valori specifici e le qualità indiscutibili del “genio” italico (pelasgico, dorico, romano, ma anche, più modernamente, cattolico). Queste riflessioni sono la base di partenza per un colloquio più ampio sul centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, con il prof. Sandro Consolato. Nato a Bagnara Calabra nel 1959 è laureato in Filosofia a Messina, dove risiede e insegna Italiano, Latino e Storia nei Licei. Consolato è uno studioso di storia delle religioni e dei rapporti tra politica, religione ed esoterismo. Ha pubblicato il saggio “Julius Evola e il Buddhismo” (SeaR, Borzano RE, 1995) ed ha collaborato alle riviste “Arthos” e “Politica Romana”. Cura dal 2001 per la casa editrice romana “I libri del Graal” la rivista di studi storici e tradizionali “La Cittadella”. È già intervenuto nel dibattito sui centocinquant’anni dell’Unità con un ampio articolo apparso sul quotidiano “Il Foglio”, anticipazione del suo libro “Dell’elmo di Scipio. Risorgimento, storia d’Italia e memoria di Roma”, la cui uscita è prevista per il 2011.

Entriamo subito nel vivo dell’argomento. Il Risorgimento fu davvero la resurrezione del mito di Roma per la nazione italiana o, come ormai si contesta da più parti, può definirsi un semplice processo di espansione del Regno di Sardegna?

«Il Risorgimento propriamente detto è un fenomeno storico che occupa un tempo abbastanza lungo, dalla fine del ‘700 fino al 1870, e di cui l’estrema appendice è la Grande Guerra, nella misura in cui poté apparire come la IV guerra di indipendenza. In questo arco di tempo ci stanno dentro molte cose, uomini e idee tra loro anche molto diversi, ma il dato fondamentale di ciò che chiamiamo Risorgimento è l’aspirazione, inizialmente coltivata da delle minoranze intellettuali e poi da strati sempre più vasti della popolazione di tutta l’Italia, all’unità e all’indipendenza nazionali. Il mito di Roma (nel senso di Roma antica) non fu, nel processo risorgimentale, sempre presente o gradito a tutti coloro che volevano l’unità. Esso fu proprio soprattutto alla sinistra risorgimentale e ricevette un grande impulso dall’esperienza della Repubblica Romana del 1849. Il mito di Roma è presente in un veneziano come Foscolo e in un lucano come Lomonaco in età napoleonica, in Mazzini, in Garibaldi, in Amari, in Crispi e anche in un Quintino Sella più tardi. Silvio Spaventa, esponente meridionale della Destra storica, giustificava il suo progetto di nazionalizzazione delle ferrovie, osteggiato dai moderati toscani, con il fatto che a Roma le strade erano dello Stato... Comunque sia, fu sentimento comune di tutti i patrioti, anche dei moderati, non troppo inclini al mito alfieriano e mazziniano della Terza Roma, che l’Italia avesse dei diritti storici all’unità e all’indipendenza dati dal suo grande passato, e la massima grandezza era stata indubitabilmente quella di Roma antica. Che l’inno di Mameli evochi la Roma degli Scipioni, le coorti eccetera, è un fatto che mi sembra già significativo. Quanto a chi ritiene il Risorgimento “un semplice processo di espansione del Regno di Sardegna”, può avere ragione solo se bada a quelli che furono i sentimenti di una parte del mondo sabaudo (in particolare di quello militare). La realtà è diversa. Si possono riconoscere degli squilibri tra le regioni d’Italia dopo l’unificazione, ma vederli tutti come effetto della cosiddetta “conquista regia” è sbagliato: tra l’altro il cuore del Regno di Sardegna, il Piemonte, di fatto nel Regno d’Italia non mantenne un ruolo veramente egemonico, come è stato invece il caso dell’Inghilterra nella creazione della Gran Bretagna. L’Italia arriva al cinquantenario del Regno, nel 1911, complessivamente cresciuta, e ha un peso politico, militare, economico che prima, spezzettata, non aveva, che nessuno stato regionale aveva».

Ma allora quali questioni ci pone, oggi, l’unità d’Italia. Questo Paese può dirsi, oggi, davvero unito?

«Il problema dell’Italia non è l’unità. Il problema è la cattiva politica, la diffusa corruzione, la criminalità organizzata e il suo intreccio tentacolare con il mondo economico e politico. È un grave errore dire, tanto a Nord come a Sud, che tutti i nostri mali derivano dall’unificazione nazionale. Sarebbe più corretto dire, con particolare riferimento al Sud, che l’Unità non sanò tutta una serie di problemi che c’erano già prima: la forte corruzione in campo amministrativo, ad esempio.

Non crede che le attuali spinte secessioniste, sempre più forti, del Nord pongano di nuovo, clamorosamente dopo centocinquant’anni, il problema della possibile perdita dell’indipendenza politica dell’Italia sullo scacchiere europeo?

«Sì, io temo che la secessione possa essere una prospettiva reale. In Europa si è dimostrato che si può secedere anche senza violenza, come nel caso della Cecoslovacchia e come potrebbe accadere in Belgio. Al Nord certuni pensano che, liberatisi dal Sud, una repubblica settentrionale sarebbe un grande paese, in grado di contare di più. In realtà la repubblica del Nord finirebbe per entrare nell’orbita dell’egemonia tedesca, probabilmente. E vi è chi, tra i leghisti, guarda apertamente con favore a tale prospettiva. Tutti hanno potuto vedere certi servizi televisivi in cui militanti leghisti si dichiaravano idealmente sudditi degli Asburgo e così via».

Le speranze suscitate dall’Illuminismo e i valori della Rivoluzione francese furono alla base dello Stato unitario intrecciandosi con i richiami alla tradizione, alla Roma degli antichi padri. Quale può essere, invece, il nostro orizzonte futuro? Quali ideali di riferimento possono, a suo avviso, rilanciare quello spirito unitario?

«La rivoluzione francese, o meglio, la successiva invasione francese dell’Italia, portò un grande scossone politico-militare nella Penisola, uno scossone senza il quale forse l’unità sarebbe stata raggiunta molto più tardi, e probabilmente in forma diversa. Ma l’idea unitaria non è l’effetto dell’influenza francese: essa nelle élites italiane è una vocazione presente da molto tempo, e con una forte relazione con la cultura letteraria di tali élites, che è una cultura unitaria. Un positivo orizzonte futuro si potrà delineare se in Italia torneranno ad esserci delle élites portatrici di una cultura unitaria capaci di divulgare e rendere popolari certe idee, e di connettere tali idee, il che è compito della politica, ad una rinascita dello Stato e delle virtù civiche, ad un rilancio dell’economia nazionale e, soprattutto, ad una vera e propria rivoluzione nel Meridione».

Concentriamoci sul Sud. Una più attenta storiografia ha rivelato come, ad esempio e per taluni aspetti, il brigantaggio sia stato una forma di guerra civile nata nel nostro Mezzogiorno dopo l’annessione al Regno d’Italia. Nell’attuale gap tra Nord e Sud, caratterizzato dalla forte emergenza criminale del nostro Mezzogiorno, ci portiamo ancora dietro i segni di quelle vicende a suo avviso?

«Che il cosiddetto “brigantaggio” sia stato una forma di guerra civile non è una novità, da un punto di vista storiografico. Il fatto è che questo tema sta piuttosto diventando una moda, correlata all’attuale crisi del sentimento nazionale. Comunque, la divaricazione tra Nord e Sud a mio avviso oggi non va letta andando indietro al 1860. Oggi questa divaricazione sta aumentando rispetto a solo vent’anni fa, poiché l’attenzione verso il Meridione non è aumentata ma è diminuita. Il problema fondamentale del Sud sono le sue classi dirigenti, le quali hanno tutelato solo i propri privilegi e creato consenso solo attraverso il clientelismo e lo sperpero del denaro pubblico, prima nazionale e ora anche europeo. Le classi dirigenti hanno anche guastato ciò che vi era di sano nel popolo meridionale, che non era affatto un popolo di fannulloni, visto che per lo più era formato da contadini che lavoravano sodo dalla mattina alla sera. Quanto alla criminalità, va detto chiaramente che va distinta dal fenomeno del brigantaggio postunitario. Se si guarda bene, questo interessò delle aree che non sono quelle storiche della ‘ndrangheta e della camorra: la Basilicata, ad esempio. Gli avvenimenti tristi di allora possono aver lasciato dei segni negativi nella popolazione, quali quelli del sentire lo Stato come qualcosa di estraneo quando non nemico».

Una certa interpretazione storica sostiene che nel Risorgimento italiano sia stata assai limitata la partecipazione della masse popolari del Sud, soprattutto contadine, agli eventi che hanno caratterizzato l’unità nazionale e che il Risorgimento stesso possa essere considerato, in effetti, una sorta di rivoluzione mancata per il nostro Mezzogiorno. Che pensa a tale proposito?

«Le masse popolari in tutta Italia, a quell’epoca, erano costituite sostanzialmente dai contadini. E da questo punto di vista, l’estraneità al processo risorgimentale riguarda tanto i contadini del Veneto quanto quelli del Sud. I contadini erano molto legati alla Chiesa, e il loro massimo di partecipazione, nel ’48 nel Lombardo-Veneto ad esempio, si ha quando anche il clero prende posizione anti-austriaca. Al Sud pure vediamo una parte del clero con sentimenti antiborbonici, e questo spiega come vi siano preti, monaci e suore che salutano favorevolmente Garibaldi nel 1860. Allo stesso tempo nel mondo contadino ci si aspetta anche, da Garibaldi, un miglioramento sociale ed economico, che di fatto per i contadini non ci fu. Quello che però bisogna evidenziare, parlando del Risorgimento e del Meridione, è che non è affatto vero che il Sud fu estraneo al processo risorgimentale, che lo subì come una iniziativa voluta e venuta dal Nord. Come emerge anche in un film come “Noi credevamo” (di cui qui non voglio evidenziare i limiti e gli errori da un punto di vista storico), il Sud fu parte attivissima dei moti indipendentistici, ed espresse delle élites, sia nell’aristocrazia che nella borghesia (anche quella piccola, artigiana) che sacrificarono vita, privilegi e beni nella lotta antiborbonica, e questo non va assolutamente dimenticato. Vorrei anche sottolineare che un uomo come Crispi, figura importante della sinistra risorgimentale meridionale, è vero che attua la repressione dei fasci siciliani, ma immediatamente vara un suo proprio progetto di legge agraria per la Sicilia che era il più avanzato che fosse mai stato proposto, volto alla creazione di un vasto ceto di piccoli proprietari terrieri, e questa volta non più sottraendo terre ai demani o alla manomorta ecclesiastica ma al latifondo privato. Tale progetto purtroppo fallì, insieme al resto della sua politica, con la sua caduta, voluta da un grande fronte che andava dai latifondisti siciliani legati al marchese di Rudinì ai gruppi industriali del Nord ostili alla politica coloniale e meridionalistica del presidente del Consiglio, gruppi straordinariamente in sintonia con la sinistra socialista settentrionale».

Per chiudere, con quali auspici e speranze, a suo avviso, ci accingiamo a festeggiare questi centocinquant’anni di storia unitaria del nostro Paese?

«Noi dobbiamo festeggiare i centocinquant’anni dello Stato unitario non per dirci che tutto è andato magnificamente ieri e procede benissimo oggi, ma per sottolineare che a quel risultato, che trova pieno compimento solo con la liberazione di Trento e Trieste nel 1918, si è giunti grazie ad una aspirazione di secoli delle menti più alte di tutta l’Italia e con il sacrificio di tanti uomini e non poche donne che hanno creduto in una Italia unita che fosse anche una Italia grande e migliore. I centocinquant’anni devono servire, più che a una celebrazione, ad un esame di coscienza della nazione, a ritrovare le ragioni, le nuove oltre che le vecchie, per cui è comunque meglio che l’Italia sia unita (con o senza federalismo) piuttosto che divisa. Oggi, poi, guardare al Risorgimento può anche dare un salutare modello al mondo politico: in poche altre occasioni i diversi “partiti” politici (e nel Risorgimento ve ne erano diversi anche entro i due grandi schieramenti dei liberal-moderati e dei democratici) hanno saputo anteporre uno scopo grande ed unico (allora l’indipendenza e l’unità nazionali) ai propri progetti di organizzazione dello Stato, dell’economia e della società (anche se bisogna riconoscere che personalità come Mazzini dovettero registrare amarissime delusioni dal raggiungimento di quello che consideravano il fine prioritario, una volta che questo si realizzò nelle forme politiche e socio-economiche volute essenzialmente da Cavour)».


Francesco Pungitore

da www.ildomani.it (che gentilmente ringraziamo) di lunedì 27 dicembre 2010