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martedì 5 febbraio 2013

Giorno del Ricordo

Entriamo nella settimana del  "Giorno del Ricordo", importante è tenere alta l'attenzione su questo dramma vissuto dal popolo italiano e poco conosciuto ....


giovedì 20 gennaio 2011

Riflessioni su Risorgimento ed Unità d'Italia

Continuiamo la pubblicazione di importanti contributi sulle questioni relative all'unità d'Italia, al risorgimento ed al rapporto con la destra radicale e moderata.

«ALL’ITALIA DI OGGI SERVONO ÉLITES

PORTATRICI DI UNA CULTURA UNITARIA»

Intervista al prof. Sandro Consolato

ROMA - Nel Risorgimento italiano le idee federaliste non mancano. Molti pensatori vedono proprio in questo modello organizzativo lo sbocco del processo unitario nazionale. In ambito moderato, ad esempio, ben prima del 1861 si progetta una Italia federale, come somma degli Stati esistenti, guidata da una figura carismatica e super partes (il pontefice). A sostenere questa linea è, principalmente, Vincenzo Gioberti, secondo il quale il Risorgimento non consiste nella creazione di una civiltà nuova, bensì nel riannodarsi del filo della storia nazionale. Una reinterpretazione del presente, insomma, fondata sui valori specifici e le qualità indiscutibili del “genio” italico (pelasgico, dorico, romano, ma anche, più modernamente, cattolico). Queste riflessioni sono la base di partenza per un colloquio più ampio sul centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, con il prof. Sandro Consolato. Nato a Bagnara Calabra nel 1959 è laureato in Filosofia a Messina, dove risiede e insegna Italiano, Latino e Storia nei Licei. Consolato è uno studioso di storia delle religioni e dei rapporti tra politica, religione ed esoterismo. Ha pubblicato il saggio “Julius Evola e il Buddhismo” (SeaR, Borzano RE, 1995) ed ha collaborato alle riviste “Arthos” e “Politica Romana”. Cura dal 2001 per la casa editrice romana “I libri del Graal” la rivista di studi storici e tradizionali “La Cittadella”. È già intervenuto nel dibattito sui centocinquant’anni dell’Unità con un ampio articolo apparso sul quotidiano “Il Foglio”, anticipazione del suo libro “Dell’elmo di Scipio. Risorgimento, storia d’Italia e memoria di Roma”, la cui uscita è prevista per il 2011.

Entriamo subito nel vivo dell’argomento. Il Risorgimento fu davvero la resurrezione del mito di Roma per la nazione italiana o, come ormai si contesta da più parti, può definirsi un semplice processo di espansione del Regno di Sardegna?

«Il Risorgimento propriamente detto è un fenomeno storico che occupa un tempo abbastanza lungo, dalla fine del ‘700 fino al 1870, e di cui l’estrema appendice è la Grande Guerra, nella misura in cui poté apparire come la IV guerra di indipendenza. In questo arco di tempo ci stanno dentro molte cose, uomini e idee tra loro anche molto diversi, ma il dato fondamentale di ciò che chiamiamo Risorgimento è l’aspirazione, inizialmente coltivata da delle minoranze intellettuali e poi da strati sempre più vasti della popolazione di tutta l’Italia, all’unità e all’indipendenza nazionali. Il mito di Roma (nel senso di Roma antica) non fu, nel processo risorgimentale, sempre presente o gradito a tutti coloro che volevano l’unità. Esso fu proprio soprattutto alla sinistra risorgimentale e ricevette un grande impulso dall’esperienza della Repubblica Romana del 1849. Il mito di Roma è presente in un veneziano come Foscolo e in un lucano come Lomonaco in età napoleonica, in Mazzini, in Garibaldi, in Amari, in Crispi e anche in un Quintino Sella più tardi. Silvio Spaventa, esponente meridionale della Destra storica, giustificava il suo progetto di nazionalizzazione delle ferrovie, osteggiato dai moderati toscani, con il fatto che a Roma le strade erano dello Stato... Comunque sia, fu sentimento comune di tutti i patrioti, anche dei moderati, non troppo inclini al mito alfieriano e mazziniano della Terza Roma, che l’Italia avesse dei diritti storici all’unità e all’indipendenza dati dal suo grande passato, e la massima grandezza era stata indubitabilmente quella di Roma antica. Che l’inno di Mameli evochi la Roma degli Scipioni, le coorti eccetera, è un fatto che mi sembra già significativo. Quanto a chi ritiene il Risorgimento “un semplice processo di espansione del Regno di Sardegna”, può avere ragione solo se bada a quelli che furono i sentimenti di una parte del mondo sabaudo (in particolare di quello militare). La realtà è diversa. Si possono riconoscere degli squilibri tra le regioni d’Italia dopo l’unificazione, ma vederli tutti come effetto della cosiddetta “conquista regia” è sbagliato: tra l’altro il cuore del Regno di Sardegna, il Piemonte, di fatto nel Regno d’Italia non mantenne un ruolo veramente egemonico, come è stato invece il caso dell’Inghilterra nella creazione della Gran Bretagna. L’Italia arriva al cinquantenario del Regno, nel 1911, complessivamente cresciuta, e ha un peso politico, militare, economico che prima, spezzettata, non aveva, che nessuno stato regionale aveva».

Ma allora quali questioni ci pone, oggi, l’unità d’Italia. Questo Paese può dirsi, oggi, davvero unito?

«Il problema dell’Italia non è l’unità. Il problema è la cattiva politica, la diffusa corruzione, la criminalità organizzata e il suo intreccio tentacolare con il mondo economico e politico. È un grave errore dire, tanto a Nord come a Sud, che tutti i nostri mali derivano dall’unificazione nazionale. Sarebbe più corretto dire, con particolare riferimento al Sud, che l’Unità non sanò tutta una serie di problemi che c’erano già prima: la forte corruzione in campo amministrativo, ad esempio.

Non crede che le attuali spinte secessioniste, sempre più forti, del Nord pongano di nuovo, clamorosamente dopo centocinquant’anni, il problema della possibile perdita dell’indipendenza politica dell’Italia sullo scacchiere europeo?

«Sì, io temo che la secessione possa essere una prospettiva reale. In Europa si è dimostrato che si può secedere anche senza violenza, come nel caso della Cecoslovacchia e come potrebbe accadere in Belgio. Al Nord certuni pensano che, liberatisi dal Sud, una repubblica settentrionale sarebbe un grande paese, in grado di contare di più. In realtà la repubblica del Nord finirebbe per entrare nell’orbita dell’egemonia tedesca, probabilmente. E vi è chi, tra i leghisti, guarda apertamente con favore a tale prospettiva. Tutti hanno potuto vedere certi servizi televisivi in cui militanti leghisti si dichiaravano idealmente sudditi degli Asburgo e così via».

Le speranze suscitate dall’Illuminismo e i valori della Rivoluzione francese furono alla base dello Stato unitario intrecciandosi con i richiami alla tradizione, alla Roma degli antichi padri. Quale può essere, invece, il nostro orizzonte futuro? Quali ideali di riferimento possono, a suo avviso, rilanciare quello spirito unitario?

«La rivoluzione francese, o meglio, la successiva invasione francese dell’Italia, portò un grande scossone politico-militare nella Penisola, uno scossone senza il quale forse l’unità sarebbe stata raggiunta molto più tardi, e probabilmente in forma diversa. Ma l’idea unitaria non è l’effetto dell’influenza francese: essa nelle élites italiane è una vocazione presente da molto tempo, e con una forte relazione con la cultura letteraria di tali élites, che è una cultura unitaria. Un positivo orizzonte futuro si potrà delineare se in Italia torneranno ad esserci delle élites portatrici di una cultura unitaria capaci di divulgare e rendere popolari certe idee, e di connettere tali idee, il che è compito della politica, ad una rinascita dello Stato e delle virtù civiche, ad un rilancio dell’economia nazionale e, soprattutto, ad una vera e propria rivoluzione nel Meridione».

Concentriamoci sul Sud. Una più attenta storiografia ha rivelato come, ad esempio e per taluni aspetti, il brigantaggio sia stato una forma di guerra civile nata nel nostro Mezzogiorno dopo l’annessione al Regno d’Italia. Nell’attuale gap tra Nord e Sud, caratterizzato dalla forte emergenza criminale del nostro Mezzogiorno, ci portiamo ancora dietro i segni di quelle vicende a suo avviso?

«Che il cosiddetto “brigantaggio” sia stato una forma di guerra civile non è una novità, da un punto di vista storiografico. Il fatto è che questo tema sta piuttosto diventando una moda, correlata all’attuale crisi del sentimento nazionale. Comunque, la divaricazione tra Nord e Sud a mio avviso oggi non va letta andando indietro al 1860. Oggi questa divaricazione sta aumentando rispetto a solo vent’anni fa, poiché l’attenzione verso il Meridione non è aumentata ma è diminuita. Il problema fondamentale del Sud sono le sue classi dirigenti, le quali hanno tutelato solo i propri privilegi e creato consenso solo attraverso il clientelismo e lo sperpero del denaro pubblico, prima nazionale e ora anche europeo. Le classi dirigenti hanno anche guastato ciò che vi era di sano nel popolo meridionale, che non era affatto un popolo di fannulloni, visto che per lo più era formato da contadini che lavoravano sodo dalla mattina alla sera. Quanto alla criminalità, va detto chiaramente che va distinta dal fenomeno del brigantaggio postunitario. Se si guarda bene, questo interessò delle aree che non sono quelle storiche della ‘ndrangheta e della camorra: la Basilicata, ad esempio. Gli avvenimenti tristi di allora possono aver lasciato dei segni negativi nella popolazione, quali quelli del sentire lo Stato come qualcosa di estraneo quando non nemico».

Una certa interpretazione storica sostiene che nel Risorgimento italiano sia stata assai limitata la partecipazione della masse popolari del Sud, soprattutto contadine, agli eventi che hanno caratterizzato l’unità nazionale e che il Risorgimento stesso possa essere considerato, in effetti, una sorta di rivoluzione mancata per il nostro Mezzogiorno. Che pensa a tale proposito?

«Le masse popolari in tutta Italia, a quell’epoca, erano costituite sostanzialmente dai contadini. E da questo punto di vista, l’estraneità al processo risorgimentale riguarda tanto i contadini del Veneto quanto quelli del Sud. I contadini erano molto legati alla Chiesa, e il loro massimo di partecipazione, nel ’48 nel Lombardo-Veneto ad esempio, si ha quando anche il clero prende posizione anti-austriaca. Al Sud pure vediamo una parte del clero con sentimenti antiborbonici, e questo spiega come vi siano preti, monaci e suore che salutano favorevolmente Garibaldi nel 1860. Allo stesso tempo nel mondo contadino ci si aspetta anche, da Garibaldi, un miglioramento sociale ed economico, che di fatto per i contadini non ci fu. Quello che però bisogna evidenziare, parlando del Risorgimento e del Meridione, è che non è affatto vero che il Sud fu estraneo al processo risorgimentale, che lo subì come una iniziativa voluta e venuta dal Nord. Come emerge anche in un film come “Noi credevamo” (di cui qui non voglio evidenziare i limiti e gli errori da un punto di vista storico), il Sud fu parte attivissima dei moti indipendentistici, ed espresse delle élites, sia nell’aristocrazia che nella borghesia (anche quella piccola, artigiana) che sacrificarono vita, privilegi e beni nella lotta antiborbonica, e questo non va assolutamente dimenticato. Vorrei anche sottolineare che un uomo come Crispi, figura importante della sinistra risorgimentale meridionale, è vero che attua la repressione dei fasci siciliani, ma immediatamente vara un suo proprio progetto di legge agraria per la Sicilia che era il più avanzato che fosse mai stato proposto, volto alla creazione di un vasto ceto di piccoli proprietari terrieri, e questa volta non più sottraendo terre ai demani o alla manomorta ecclesiastica ma al latifondo privato. Tale progetto purtroppo fallì, insieme al resto della sua politica, con la sua caduta, voluta da un grande fronte che andava dai latifondisti siciliani legati al marchese di Rudinì ai gruppi industriali del Nord ostili alla politica coloniale e meridionalistica del presidente del Consiglio, gruppi straordinariamente in sintonia con la sinistra socialista settentrionale».

Per chiudere, con quali auspici e speranze, a suo avviso, ci accingiamo a festeggiare questi centocinquant’anni di storia unitaria del nostro Paese?

«Noi dobbiamo festeggiare i centocinquant’anni dello Stato unitario non per dirci che tutto è andato magnificamente ieri e procede benissimo oggi, ma per sottolineare che a quel risultato, che trova pieno compimento solo con la liberazione di Trento e Trieste nel 1918, si è giunti grazie ad una aspirazione di secoli delle menti più alte di tutta l’Italia e con il sacrificio di tanti uomini e non poche donne che hanno creduto in una Italia unita che fosse anche una Italia grande e migliore. I centocinquant’anni devono servire, più che a una celebrazione, ad un esame di coscienza della nazione, a ritrovare le ragioni, le nuove oltre che le vecchie, per cui è comunque meglio che l’Italia sia unita (con o senza federalismo) piuttosto che divisa. Oggi, poi, guardare al Risorgimento può anche dare un salutare modello al mondo politico: in poche altre occasioni i diversi “partiti” politici (e nel Risorgimento ve ne erano diversi anche entro i due grandi schieramenti dei liberal-moderati e dei democratici) hanno saputo anteporre uno scopo grande ed unico (allora l’indipendenza e l’unità nazionali) ai propri progetti di organizzazione dello Stato, dell’economia e della società (anche se bisogna riconoscere che personalità come Mazzini dovettero registrare amarissime delusioni dal raggiungimento di quello che consideravano il fine prioritario, una volta che questo si realizzò nelle forme politiche e socio-economiche volute essenzialmente da Cavour)».


Francesco Pungitore

da www.ildomani.it (che gentilmente ringraziamo) di lunedì 27 dicembre 2010

domenica 7 novembre 2010

Massoni: nemici dell'autorità

Prima hanno avallato e finanziato l’Unità d’Italia, ora vogliono dividerla per questioni di convenienza economica

L’unico pensiero che guida le iniziative dei “grembiulini” è il profitto

A un esame superficiale, l’intreccio fra Italia e massoneria, potrebbe apparire assurdo e inestricabile. Prima, quando l’Italia era un’espessione puramente geografica, la Massoneria si diede gran da fare per aiutarla a divenire una nazione; poi, divenuta nazione, si diede ancor maggiore da fare per distruggerla e farla tornare espressione geografica. Ma insomma: che cavolo vogliono, questi col grembiulino? Non lo sanno neanche loro?
Questo potrebbero chiedersi, gli esaminatori superficiali. C’è poi una categoria ancora inferiore agli esaminatori superficiali: quelli che non esaminano per niente, e non sanno che ripetere come pappagalli adulti quello che hanno loro inculcato da pulcini. Per loro, non c’è alcun problema. La Massoneria ha prima liberato l’Italia dalla tirannide straniera, e poi l’ha liberata da quella nazifascista: evviva la libertà! Ma rimettiamo il ciuccetto in bocca a costoro e rivolgiamoci ai superficiali, che almeno pensano!
Considerazione generale: nella realtà non esistono contraddizioni. Se uno ce le vede, deve solo tirare fuori il fazzoletto e pulirsi gli occhiali. Fatto?
La Massoneria non è che la versione iniziatica dell’illuminismo e, come quello, è fondata sull’idolatria della Ragione eretta a divinità. È quindi nemica giurata di ogni autorità fondata su qualcosa di diverso dalla convenienza, e il suo affermarsi fu facilitato dal fatto che ogni autorità del genere (e cioè “i troni e gli altari”) mostrasse per molti versi la corda. ma questo è un altro discorso. Non occorre rievocare il ruolo determinante che le sue logge rivestirono nelle rivoluzioni borghesi di fine Settecento: quella francese e quella americana. Massoni erano gli estensori della parigina Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e i registi della frode con cui essa fu spacciata per approvata dal popolo, e massoni erano i bianchi mascherati da indiani che uscirono dalla loggia di Boston per abbordare la nave del tè e scaricarne le casse in mare. Del tutto ovvio fu quindi il favore che il Grande Oriente di Londra riservò ai primi fautori dell’unità d’Italia. Non che quello fosse travolto da repentino amore per la penisola a forma di stivale: fu che il formarsi di uno Stato italiano avrebbe rappresentato un brutto colpo sia per l’impero degli Absburgo (e le sue dipendenze toscana ed emiliane), sia per il regno napoletano, sia per quello sardo, sia per quello pontificio, che di trono e altare faceva un tutto unico. Peraltro, ci aveva già più volte provato Napoleone (che dello stesso illuminismo rappresentava la versione militare), e gli appassionati ribelli italiani portavano una coccarda dei tre colori che erano stati delle effimere repubbliche francofile e massoniche. Per chi mai avrebbero dovuto “tifare” i fratelli col grembiulino: per il cardinale Ruffo?
Giunti però alla conclusione della prima Guerra Mondiale, con piena soddisfazione dell’autorità massonica, avvenne qualcosa di orribile (dal suo punto di vista). Avvenne che in due nazioni, l’una vincitrice ma tradita dalla pace e l’altra sconfitta ma mai militarmente battuta, lo spirito riprese i suoi diritti e giunsero al potere uomini e idee che, ricollegandosi alle autentiche tradizioni dei due popoli, osarono proclamare la preminenza della fedeltà ad esse sulla gretta “convenienza” economica.
Non che non vi fossero state anche in passato voci in tal senso, rimaste inascoltate. Ma il fatto gravissimo era che, giunte tali “utopie” al potere, non solo non fossero state smentite dall’economia sovrana, ma avessero conseguito successi anche economici così clamorosi da conquistare pacificamente sempre più ampi settori degli stessi popoli di cui la Massoneria pensava di avere il saldo possesso. Ma c’era di peggio: stavolta non si trovavano di fronte i cascami decaduti e svuotati di antiche caste, ma energie giovani e dirompenti, volte verso l’avvenire.
La minaccia di immatura morte degli “immortali principi” percorse come un gelido terrore tutta la Terra ancora retta dagli emissari della Grande Usura, mascherati da “democratici”, tutti insieme, come a un comando unico, percossi dall’orrore che le “dittature” reprimessero gli aneliti di libertà dei rispettivi popoli.
Nessuna rilevanza aveva per loro il fatto che i cattivi tiranni riscotessero punte di consenso popolare che nessuno di loro democratici si era mai sognate, neanche in preda a stupefacenti. Per chi è in malafede, infatti, anche l’evidenza può non avere rilevanza. E fu la grande congiura contro il Tripartito che riuscì a provocare la seconda (e assai peggiore) Guerra Mondiale. Dove mai poteva collocarsi, date le premesse, la massoneria se non fra i più fervidi fautori di quella congiura? E quali altre disposizioni poteva impartire ai propri adepti in Italia, presenti e ben mimetizzati in ogni ambiente, alti comandi militari compresi, se non quelle di boicottare in ogni modo le difese italiane, ponendosi a pieno servizio delle “potenze antifasciste”?
E questo, con assoluta coerenza, essa fece, manovrando ignobili carogne gallonate e poltronizzate, capaci di assassinare a tradimento, con le loro “preziose” informazioni, migliaia di giovani della loro gente mandati volutamente allo sbaraglio. Si tratta degli “articolo 16”, che l’Alighieri avrebbe ficcato senza esitare in Cocito, tra i denti di Satana. Ma mettetevi nei panni e nei grembiulini dei vertici massonici.
Di chi dovevano servirsi, per tale infamante bisogna: forse di galantuomini di specchiate virtù? Se quindi è fuori dubbio che i manutengoli italioti del dollaresco novus ordo seclorum meriterebbero a buon diritto di essere allineati ad ornamento dei bastioni, impalati all’uso turco, è anche certo che le loro alte e fraterne gerarchie si sono sempre comportate con lineare, implacabile coerenza, fedeli ai loro sempre dichiarati principi, senza deviarne neppure di una linea. Non sarebbe il caso che anche noi facessimo altrettanto?
Rutilio Sermonti

Articolo pubblicato su Linea anno XIII numero 225

lunedì 11 ottobre 2010

Dietro le quinte della storia - Il vero volto del Risorgimento.

Riteniamo opportuno, per svolgere la funzione che ci siamo proposti, di segnalare all'attenzione dei lettori di questo blog un brano di Julius Evola riguardo i temi del Risorgimento, dell'unità d'Italia e del ruolo svolto dalle società segrete nel corso degli anni, dietro il velo ufficiale della Storia. Una riflessione a margine dell'anniversario del 150° dell'unità d'Italia che certamente sarà foriera di ulteriori approfondimenti.

Le idee demoliberali e massoniche prese a prestito per unire l’Italia non furono purtroppo messe da parte dopo aver assolto la loro funzione puramente pragmatica e strumentale.

Dato il presupposto di questa rivista di occuparsi degli aspetti principali del Risorgimento italiano in occasione del ricorrere di uno degli episodi più salienti di esso, e data anche l’intenzione di intraprendere questo esame non per fini accademicamente storici ma per fissare anche l’atteggiamento da assumere di fronte alle rievocazioni che, in questa circostanza, si preannunciano di già negli ambienti democratici e socialcomunisti, non sarà forse inutile dedicare qualche osservazione al modo con cui si presenta il fenomeno del Risorgimento italiano, e al significato che esso ha, dal punto di vista di una storiografia di pura Destra.

Nel far ciò, riprenderemo idee che per chi ha seguito i nostri scritti non saranno affatto nuove avendole noi già difese fin dal periodo del fascismo. Ma tornarvi su non sarà inopportuno, per il fatto che il punto di vista di una vera Destra è da considerarsi tuttora pressoché inesistente: del che potrà essere una conferma l’impressione che, di fronte a quanto diremo, riporteranno non pure gli appartenenti alle correnti democratiche e di sinistra, ma anche ambienti di orientamento nazionale e “patriottico”.

Si è che anche questi ambienti non si allontanano di molto dagli schemi e dalle formule di quella che si può chiamare la “storia patria”, la quale praticamente da noi è quasi l’unica conosciuta e facente testo, ma è essenzialmente d’impostazione e d’origine liberale, illuminista e massonica. Una storiografia di Destra attende ancora di essere scritta.

Così anche in questo dominio devesi constatare una nostra precisa posizione d’inferiorità di fronte alle ideologie di sinistra. A partire dalla crisi della civiltà tradizionale europea e dell’antico regime, cioè a partire dalla nascita del radicalismo e del socialismo, l’intellettualità di sinistra si è applicata sistematicamente ad elaborare una sua storiografia, da servire come sfondo per la sua azione di agitazione sociale e sovversione politica. E a tale riguardo essa ha saputo portare lo sguardo sulle dimensioni esenziali della storia; di là dagli episodi e dai conflitti politici, di là dalla storia delle nazioni ha saputo scorgere il processo generale e essenziale realizzatosi attraverso i secoli, nel senso del passaggio da un dato tipo di società e di civiltà ad un altro. Che la base dell’interpretazione qui sia stata economica e classista, non toglie nulla all’ampiezza effettiva al quadro d’insieme di tale storiografia, che come realtà essenziale di là da quella contingente e particolare coi indica la fine della civiltà feudale e aristocratica, l’avvento di quella borghese, liberale e capitalistica, e dopo questa, come tendenzialità l’annunciarsi della civiltà marxista e, infine, comunista.

Misurata con tale storiografia, quella delle altre tendenze appare superficiale, episodica, perfino frivola. Una storiografia di vera Destra dovrebbe invece abbracciare gli stessi orizzonti della storiografia marxista, con la volontà di cogliere l’essenziale e il reale fuor dai miti, dalle superstrutture e anche dalla piatta cronaca: ma, naturalmente, invertendo i segni e le prospettive, vedendo nei processi essenziali e convergenti della storia ultima non le fasi di un processo politico e sociale bensì quelle di un generale sovvertimento.

Questa, dunque, è la premessa. Dopo di ciò, veniamo al nostro argomento specifico, e chiediamo quale significato deve ascriversi, nel quadro di una storiografia di Destra, al risorgimento italiano.

A tal’uopo occorre anzitutto distinguere, nel Risorgimento, il suo aspetto di movimento nazionale dal suo aspetto ideologico; in oltre bisogna separare i fatti eroici e combattentistici presi in se stessi dai significati che di là dalla consapevolezza dei singoli, risultano in un più vasto insieme, ciò nel quadro delle grandi correnti politico-sociali dell’Europa di quell’epoca.

Al Risorgimento si deve l’unità dell’Italia, e qui non può trattarsi di fare il processo agli uomini e ai movimenti a cui, grazie ad un insieme assai complesso di circostanze, l’Italia dovette la sua unificazione e la sua indipendenza politica. Questo è il solo aspetto messo in evidenza dalla “storia patria”, con largo uso di schemi semplificati e idealizzanti. In effetti i successi principali del Risorgimento italiano furono dovuti – come è noto – più ad una politica che oggi si chiamerebbe di “possibilismo”, cioè di abile sfruttamento delle circostanze interne e delle congiunture internazionali, che non all’esclusiva azione diretta dagli italiani. L’unanimità del movimento risorgimentale fu relativa dallo stesso punto di vista del popolo, specie nell’Italia centrale e meridionale.

In ogni caso, i fatti risorgimentali presi in sè stessi mantengono il loro valore dal punto di vista del terminus ad quem,cioè della costituzione dello Stato italiano. Il giudizio però cambia se si passa al secondo degli aspetti accennati, cioè se si considerano le idee predominanti in funzione delle quali si agì,e che resero possibile il conseguimento del fine: idee, che poi dovevano continuare a prevalere nella vita politica italiana,fino al periodo del fascismo.

Qui vi è innanzi tutto da rilevare che il Risorgimento fu un movimento nazionale solo per accidente; esso rientrò nei moti rivoluzionari determinatisi in tutto un gruppo di stati in conseguenza del diffondersi delle ideologie della Rivoluzione Francese. Il 48 per esempio, ebbe l’identico volto nei movimenti italiani e in quelli che si accesero a Praga, in Ungheria, in Spagna, in Germania e nella stessa Vienna asburgica, in base ad un’unica parola d'ordine. Da un punto di vista d’insieme, qui si ebbero tante colonne dell'avanzata di un unico fronte internazionale, comandato dall’ideologia del Terzo Stato, cioè dall’ideologia costituzionalistica demoliberale, massonica, e in fondo, antitradizionale: fronte, che aveva i suoi dirigenti mascherati. A torto si pensa che solo oggi esistono fronti internazionali – “Oriente” e “Occidente”- al di là dai singoli popoli e dalle singole patrie. Ciò lo si ebbe già a partire dal periodo della Rivoluzione Francese e in quello dello stesso Risorgimento,ciò avvenne anche allora. Non diversamente i moti comunisti attuali sono,nelle varie nazioni,solo tanti aspetti della rivoluzione del Quarto Stato iniziatasi con la Terza internazionale,e dell'azione della rete di "cellule" al servizio di essa. E dagli esponenti dell'Europa tradizionale liberalismo, mazzinianesimo e tutto il resto furono,a quel tempo,considerati come oggi liberali e democratici considerano a loro volta il comunismo: solo che ci si serviva del mito nazionale e patriottardo e si era alle prime fasi dell’azione sgretolatrice data come “progressismo”. Ideologicamente il Risorgimento italiano appare,nella sua essenza,come un episodio della rivoluzione del Terzo Stato.

Esisto documenti significativi(elementi del gruppo a cui appartenevano ne cominciarono a rendere noti alcuni nel periodo del fascismo)i quali mostrano,a chi voglia esplorare la terza dimensione dei movimenti italiani di quel periodo,come stavano effettivamente le cose:per le forze che si tenevano dietro le quinte e che ripetiamolo,agivano internazionalmente avendo per origini in parte la massoneria e la carboneria,in parte altre organizzazioni più segrete,l’unità e l’indipendenza d’Italia erano cose secondarie,costituivano più un mezzo che non il fine. Lo scopo vero,che i patrioti e gli idealisti italiani,i martiri e tutti gli altri,non avevano bisogno di conoscere,era di dare un colpo mortale all’Austria quale rappresentante dell’idea imperiale “reazionaria” e poi alla Chiesa,a Roma.Era la prosecuzione nell’insieme,del programma già formulato, e venuto in luce attraverso un processo del Santo Uffizio,in un convegno segreto internazionale tenutosi presso Francoforte alla vigilia della Rivoluzione Francese,che di questo indicava la vera “Direzione”come prima fase di un piano più vasto.

Ma senza portarci troppo dietro le quinte,basta dare uno sguardo agli scritti del tempo per vedere se si parlava volentieri di Italia e di lotta contro lo straniero,maggior risalto avevano però,in quegli scritti,l’esaltazione dei principi giacobini di uguaglianza,la lotta contro quelli che venivano chiamati i “tiranni”,poco importando che il presunto tiranno fosse italiano o straniero- nella formula di giuramento dei carbonari,ciò era detto in termini chiari.

Del resto,a tale riguardo lo stesso Garibaldi quale”eroe dei due mondi” fu un esempio caratteristico:egli era pronto combattere per la causa della “liberta” e dei “popoli oppressi” qualunque fosse la loro patria. Si conferma così, per il lato ideologico del Risorgimento, il suo significato di forma particolare che in Italia assunse un fenomeno generale, un moto d’insieme che continuò l’impulso dato dalla Rivoluzione Francese per il rovesciamento dei precedenti regimi tradizionali.

Qui è opportuno mettere in rilievo un punto, che a molti oggi apparirà paradossale, tanto ci si è abituati a considerare normale ciò che nel quadro generale di una civiltà di tipo aristocratico e gerarchico non lo è affatto:il carattere sovversivo che dal punto ei vista della Destra ebbe il concetto di nazione e di patria quale fu usato nel periodo di cui stiamo parlando,in margine ai moti rivoluzionari. Anche qui la storiografia marxista ha saputo vedere la realtà al di là delle sovrastrutture,riconoscendo l’appartenenza di questo concetto alla fase della rivoluzione borghese,destinata,come disse Engels, a far da apritrice di breccia per la rivoluzione socialista. Nel mondo tradizionale,che per noi è quello retto dai princìpi dell’autorità e della sovranità,della gerarchia dell’ordinamento dall’alto e verso l’alto-tutto ciò che è “patria”o “nazione”- ethnos - non ebbe un significato politico ma soltanto naturalistico:si è di una patria o nazione come si è di una data famiglia. L’ordine politico in senso proprio corrispondeva invece al principio dello Stato (in genere, concretizzatesi in monarchie e in dinastie) o dell’impero come unità sovrordinata rispetto a nazione o “popolo”. E’ così che si ebbero formazioni politiche in cui patrie e nazioni ebbero bensì il loro posto,ma non come fattori determinanti,invece come semplice “materia” della gerarchia complessiva. E non sembrava strano,a tale stregua, che,per esempio,per combinazioni dinastiche,per matrimoni o successioni,un popolo passasse a far parte di uno Stato diverso:da ciò esso non si sentiva per nulla snaturato,appunto per via della carattere sopraelevato del principio politico. Tale situazione aveva anche una controparte etica:l’appartenenza allo Stato era legata ad una fedeltà,cioè presupponeva un atto libero,volontario(i vincoli feudali ne erano già stati forma eminente). L’essere di un popolo o di una nazione è invece qualcosa di semplicemente dato,di naturalistico.

Ebbene,come il termine “patriota”fece la sua prima apparizione quale designazione degli enfants de la patrie del periodo della Rivoluzione Francese nella loro lotta contro monarchia e aristocrazia e contro gli alleati stranieri di esse,del pari risulta chiaro l’uso rivoluzionari che in Europa dopo la Rivoluzione Francese fu dato all’idea di patria e di nazione:essa fu assunta in funzione tendenzialmente democratica e collettivistica,per scalzare ogni superiore principio di autorità,per iniziare la scalata allo Stato e al potere ad opera delle masse-e lo sviluppo attraverso una ferrea concatenazione di fenomeni sovvertitori,passando per il”per volontà della nazione”,porta fino alle attuali”democrazie popolari”come fase terminale.

Ora,non si può disconoscere la parte che proprio questo concetto rivoluzionario della nazione ebbe,come idea-forza, nello stesso Risorgimento italiano. Come in analoghi movimenti di altre nazioni,qui il “patriottismo”,mito della nazione,idea libertaria,costituzionalismo,rivoluzionarismo agirono solidarmente. In questo contesto rientra anche la struttura antilegittimistica che assunse, a causa di un fatale insieme di circostanze e,anche,della limitatezza e della non qualificazione degli elementi conservatori,l’unificazione italiana..Qui non si tratta di fare ipoteche sui “se” della storia. Ad indicare l’opposta possibilità,dal punto di vista morfologico è però legittimo stabilire un parallelo col processo di unificazione che ebbe luogo in Germania ad opera di Bismark:con la costituzione del Reich - del secondo Reich dopo quello svevo - varie unità di tipo tradizionale furono riprese e conservate in una superiore unità, la Prussia facendo da centro di cristallizzazione e da Stato-guida. Qualcosa del genere fu considerato anche in Italia,negli ambienti giobertani, però in modo inadeguato,entro un utopico quadro guelfo:il suolo adatto e il clima ideologico per venire a qualcosa di costruttivo mancavano del tutto. Lasciamo questo punto da parte. Uno sviluppo post-risorgimentale nel senso di una Destra stato anche possibile,in Itali. Il Rimonte e la monarchia sabauda avendo preso ‘iniziativa del movimento unificatore,a unità raggiunta si sarebbe dovuto procedere alla liquidazione dei miti e delle ideologia che, per forza maggiore,l’avevano propiziata,assegnando ad esse un valore puramente pragmatico,strumentale. Avrebbe dovuto seguire un vigorosa azione formatrice, come quelle che,centrate in monarchie,attraverso una tradizione di lealismo avevano creato i grandi stati europei. La formula ben nota,che essendo fatta l’Itali si dovevano fare gli Italiani,avrebbe dovuto essere applicata in modo più rigoroso. Nulla di tutto ciò. Può dirsi che il Piemonte, nucleo originario dell’unificazione, invece di “piemontizzare” l’Italia in un senso analogo come la Prussica aveva fatto con la Germania costituendola in una forte e articolata unità, nell’abbracciare tutta l’area della penisola si sfaldò e perdette i tratti che ancora conservava per forza della sua secolare tradizione. Al nuovo Stato italiano non corrisponde un’idea propria, politica, un simbolo sopraelevato, una forza formatrice; la monarchia parlamentare si presentò come poco più che una sovrastruttura, quasi con caratteri “privati” puramente rappresentativi. Le ideologie prese in prestito per unificare l’Italia non furono affatto messe da parte dopo aver assolto la loro funzione; esse andarono invece a determinare il clima politico e sociale predominante in Italia, lasciando margine a forme ulteriori di sovversione,come quelle che già si verificarono nei gravi disordini sociali al tempo della prima guerra d’Africa e che come tragico episodio ebbero l’assassinio di re Umberto.

Infine la pietra di prova la si ebbe nel 1913,con la rottura della Triplice Alleanza(questo patto era stato l’unico passo positivo per un eventuale revirement a destra dell’Italia unificata)e con l’intervento a fianco delle democrazie mondiali contro gli Imperi Centrali. In effetti,a provocare quell’intervento non furono considerazioni realistiche:si sa che mediante alcune negoziazioni diplomatiche l’Italia, anche col semplice restar naturale,avrebbe potuto ottenere una buona parte di ciò che poi i nuovi alleati democratici dovevano concederle a denti stretti. Veramente determinante fu piuttosto l’eredità ideologica del Risorgimento,fu il mito “nazionale(nel senso rivoluzionario già spiegato)unito a quello antitedesco che faceva vedere negli imperi centrali quasi degli stati “fascisti”avant la lettre(da qui,l’estensione alla Germania di sentimenti “patriottici” che al massimo erano giustificati contro l’Austria).

Però anche qui s’impone la distinzione fatta pel Risorgimento:la entrata in guerra fu,in sé stessa,un fatto positivo quale fenomeno di “risveglio” dal clima dell’Italietta borghese ottocentesca,e i fatti eroici,combattentistici della prima guerra mondiale mantengono il loro valore intrinseco e vanno separati dal significato sovrordinato che ebbe la guerra italiana quale contributo al processo che doveva far compiere un gigantesco passo avanti al fronte del Terzo Stato,cioè delle democrazie,con un gravissimo colpo per quel che il nostro continente ancora conservava in fatto di regimi di tipo tradizionale,nell’Europa centrale.

Data con tratti più che sommari, questa è la fisionomia che presenta la “tradizione risorgimentale” nel quadro di una storiografia di destra. Ora,interesserebbe forse esaminare il problema dei rapporti fra tradizione risorgimentale e fascismo per avvicinarsi a delle conclusioni valevoli anche per le cose di oggi. Per ragioni di spazio non potendoci soffermare sull’argomento,ci limiteremo a dire che,dal punto di vista della Destra,il rapporto fra fascismo e Risorgimento è duplice,come duplice -secondo il già detto- è il volto di quest’ultimo. A considerare i fatti eroici e di risveglio nazionale del Risorgimento(continuità ancor più diretta e ben nota è però quella tra fascismo e l’analogo aspetto del combattentismo e dell’interventismo). Considerando però le idee,il fascismo ebbe valore,in quanto,per quel tanto,che esso fu un antiideologismo risorgimentale. Il tratto specifico del fascismo secondo il nostro punto di vista non è infatti il semplice aver ripreso una idea patriottica e nazionale cercando di accrescere la potenza e l’espansione italiana:processi del genere non si connettono infatti a nessuna speciale idea politica,si possono avere anche in Stati democratici,li si hanno nella stessa URSS. Il tratto caratteristico è invece la ripresa dell’idea dello Stato,dell’autorità e della sovranità insieme a quella di unità semplicemente “patriottica”,ma lealistica e di fedeltà:sia pur sminuita dal sistema della “diarchia”. L’Italiano era chiamato ad essere fedele anzitutto ad un Capo e ad un’idea. E non semplice retorica avrebbe potuto venire dalla ripresa del simbolo romano.

Ciò che vi è da raccogliere dall’eredità del fascismo ci sembra che debba essere precisato in questi termini. L’associarvi la “tradizione risorgimentale”è cosa pericolosa. Il “Risorgimento” potrebbe oggi valere soltanto nei termini dell’appello di una minoranza ad una rivolta unanime nazionale contro l’attuale regime,il quale però si trova ad essere l’esponente indiscusso proprio di buona parte delle ideologie del Risorgimento e della successiva Italietta parlamentare. Per una tale rivolta e un tale risveglio, a tutt’ora sembra mancare,purtroppo, sia un centro efficace di cristallizzazione,sia il necessario clima generale. Venendo meno a questo aspetto,in fatto di rievocazioni e di “tradizioni risorgimentali”,oggi non si potrebbe aver la meglio polemizzando contro quelle correnti attuali che ad esse si rifanno,che hanno parlato di “parentesi fascista”,che hanno identificato il tradimento e il partigianesimo ad un “secondo Risorgimento”,riprendendo l’inno di Mameli coi “Fratelli d’Italia”,facendo lo stesso abuso di una idea “patriottarda” e genericamente nazionale nel preparare,coscientemente o incoscientemente,anche da noi l’ultima fase della sovversione- quella legata ala rivoluzione del Quarto Stato- con l’avanzata del social-comunismo, così come i “patrioti”di ieri, pur vedendo e invocando l’Italia,avevano lavorato per la rivoluzione del Terzo Stato.

Rivendicare a quello del Risorgimento il valore di un retaggio ideologicamente di destra è un assunto impossibile. Altri debbono essere i nostri punti i riferimento, se si ha il coraggio di una rigorosa dottrina politica e di una azione politica altrettanto rigorosa.

Julius Evola

da L'Italiano Marzo 1959 n. 3

mercoledì 28 luglio 2010

li chiamarono... Briganti!

Una delegazione del CS Aurhelio è stata invitata all'inaugurazione del Santa marinella film festival, giorno nel quale è stato proiettato il film di Pasquale Squitieri "li chiamavano... Briganti!". Riteniamo doverosa la segnalazione per la funzione revisionista della pellicola relativa al processo di unificazione dello Stato nazionale, in occasione con l'anniversario dei 150 anni da tale evento. Molti si ostinano a giustificare il risorgimento in funzione della coincidenza con l'unità d'Italia. Al contrario ci pare doveroso sottolineare come già Julius Evola ebbe precisamente ad affermare che: «... il risorgimento non fu un movimento nazionale che per accidente; esso rientrò nei moti rivoluzionari determinatisi in tutto un gruppo di Stati in conseguenza dell'importazione delle idee della rivoluzione giacobina. Il '4...8 e il '49, ad esempio, ebbero un identico volto nei movimenti italiani e in quelli che si accesero a Praga, in Ungheria, in Germania, nella stessa Vienna asburgica, in base ad un'unica parola d'ordine. Qui si ebbero semplicemente tante colonne dell'avanzata di un unico fronte internazionale, comandato dall'ideologia liberaldemocratica e massonica, fronte che aveva anche i suoi dirigenti mascherati».

Piccola recensione a cura di Emmanuele

Pellicola non politicamente corretta, criticata a livello storico eppure il regista non fa altro che descrivere delle verità. Inviterei i critici cinematografici a leggersi la storia d'Italia prima di criticare un film di genere "storico" in quanto la storia portata sullo schermo è nè più nè meno che quella di Carmine Crocco, il più famoso e grande brigante post-unitario. Di inventato, a livello biografico e storico c'è pochissimo nel film di Squitieri. Dispiace ma certo non meraviglia che non abbia avuto maggiore fortuna per il tema e l'ottica con cui si guarda ai processi avvenuti in seguito all'unificazione italiana che ancora oggi suscitano facili e semplicistici giudizi. Da un punto di vista tecnico il film è essenziale e diretto, forse limitato proprio dall'essere troppo legato alle vicende di Crocco; però a livello culturale è una sorta di Balla coi lupi all'italiana, ci mostra un'altra angolazione di una vicenda storica ancora oggi scomoda, per questo dovrebbe essere visto e distribuito...[..]...

http://it.wikipedia.org/wiki/Li_chiamarono..._briganti!