mercoledì 28 settembre 2011

Arianità della dottrina del risveglio

Tratto da "La Dottrina del Risveglio", di Julius Evola



Resta da dire qualcosa circa l’«arianità» della dottrina buddhista. Il nostro uso del termine «ario» in ordine a tale dottrina si giustifica anzitutto direttamente con i testi. Nel canone, ricorre dovunque il termine ariya (in sanscrito âriya), che vuole appunto dire «ario». Aria è detta la via del risveglio – ariya magga; arie sono le quattro verità fondamentali – ariya saccâni; ario il metodo di conoscenza – ariya-naya; ariya è detto l’insegnamento – in prima linea quello che accusa la contingenza del mondo – il quale a sua volta si rivolge agli ariya: si parla della dottrina, come di quella che non al volgare, ma solo agli ariya è accessibile ed intelligibile. Vi è chi ha voluto tradurre il termine ariya con «santo». Ma questa è una traduzione imperfetta, anzi sfasata, data la divergenza effettiva esistente fra ciò di cui si tratta, e tutto quello a cui sùbito si pensa in Occidente quando si parla di «santità». Anche la traduzione di ariya con «nobile» o «sublime» è poco adeguata. Si tratta di significati successivi assunti dal termine, i quali non corrispondono alla pienezza di quello originario, ad un tempo spirituale, aristocratico e razziale, significato che, malgrado tutto, nel buddhismo si è conservato in larga misura. È così che orientalisti, come per es. il Rhys Davids e lo Woodward, hanno ritenuto che sia meglio non tradurre affatto il termine ed hanno lasciato ariya dovunque ricorre nei testi, sia come aggettivo, sia come sostantivo designante una determinata classe di esseri. Gli ariya sono, nei testi del canone, lo Svegliato, gli svegliati e coloro che ad essi sono uniti perché intendono, accettano e seguono la dottrina ariya del risveglio.

È opportuno sottolineare l’arianità della dottrina buddhista per varie ragioni. In primo luogo, per prevenire chi, contro di essa, volesse avanzare la pregiudiziale dell’esotismo e dell’asiatismo, e parlasse di una sua estraneità rispetto alle «nostre» tradizioni e alle «nostre» razze. Ebbene, va ricordato che l’unità primordiale di sangue e di spirito delle razze bianche che crearono le massime civiltà d’Oriente e d’Occidente, quella irànica e indù non meno di quelle ellenica, romana antica, germanica, è una realtà. Il buddhismo ha il diritto di dirsi ario, perché riflette in alto grado lo spirito delle comuni origini, perché ha conservato parti notevoli di un retaggio che, come si è già detto, gli Occidentali hanno invece via via dimenticato, sia per opera di processi involutivi endogeni, sia perché proprio essi – assai più che non gli Arii d’Oriente – hanno soggiaciuto, specie nel campo religioso, ad influenze estranee. Come si è accennato, tolti alcuni elementi periferici, l’ascesi del primo buddhismo nella sua chiarezza, nel suo realismo, nella sua precisione e nella sua salda e ben articolata struttura, ha effettivamente del «classico», riflette cioè il più elevato stile dell’antico mondo ario-mediterraneo.

E non è soltanto quistione di forma. Una intima congenialità si palesa fra lo spirito dell’ascesi annunciata dal principe Siddharta e quell’accentuazione dell’elemento intellettuale e olimpico, che contrassegna il platonismo, il neoplatonismo e lo stesso stoicismo romano. Altri punti di contatto si riscontrano là dove il cristianesimo fu rettificato appunto da un sangue ario conservatosi maggiormente puro, intendiamo nella cosidetta mistica germanica: si ricordi il Meister Eckhart della predica sul distacco, sull’Abgeschiedenheit, o della teoria dell’«anima nobile»; si ricordi anche un Tauler e un Silesio. Qui, come in ogni altro campo, l’insistere sull’antitesi di Oriente ed Occidente è frivolo. L’opposizione vera è in primo luogo quella che esiste fra le concezioni di tipo moderno e le concezioni di tipo tradizionale, siano, queste ultime, occidentali o orientali; in secondo luogo, è quella che esiste fra le creazioni schiette di uno spirito e di un sangue ario e quelle che, invece, in Oriente come in Occidente, hanno risentito di influenze non arie. Come è stato giustamente rilevato dal Dahlke, fra le tradizioni più grandi e più antiche il buddhismo è quella che piú si può dire di pura origine aria.

E ciò vale anche in un senso specifico. Se il termine ario, generalizzando, lo si può applicare all’insieme delle razze indoeuropee con riguardo alla loro comune origine (la patria originaria di tali razze, l’airyanem-vaêjô, secondo il ricordo distintamente conservatosi nell’antica tradizione irànica, fu una regione iperborea o, piú genericamente, nordico-occidentale), pure in seguito esso è stato una designazione di casta. Come ârya valse essenzialmente una aristocrazia, opposta, nello spirito e nel corpo, sia a razze primitive, ibride e «demoniche» quali quelle delle popolazioni kosaliane e dravidiche trovate nei territori asiatici conquistati; sia, più in genere, al substrato corrispondente a quel che oggi si chiamerebbe probabilmente la massa proletaria e plebea, nata, in via normale, per servire, la quale, in India come nel mondo greco-romano, fu esclusa dai culti luminosi caratterizzanti le caste superiori, patrizie, guerriere e sacerdotali.

Ebbene, il buddhismo è da dirsi ario anche in questo senso quasi castale, malgrado l’attitudine, di cui diremo in séguito, da esso assunto di fronte al sistema delle caste dei suoi tempi. Chi poi venne chiamato lo Svegliato, cioè il Buddha, era il principe Siddharta, secondo alcuni figlio di re, secondo altri, almeno della più pura ed antica nobiltà guerriera della stirpe dei Çâkya, proverbiale per la sua fierezza – era un modo di dire: «fiero come un Çâkya». Questa schiatta, a sua volta, come le piú illustri ed antiche dinastie indú, si rifaceva alla cosidetta «stirpe solare» – sûrya vamça - e all’antichissimo re Ikçvâku. «Lui, di stirpe solare» – si legge, circa il Buddha. Ed egli lo dichiara: «Discendo dalla dinastia solare e sono di nascita un Çâkya» ed anche come asceta che ha rinunciato al mondo rivendica la dignità regale, la dignità di un re ariya. La tradizione vuole che in lui si ammirasse «una forma adorna di tutti i segni della bellezza e cinta da una aureola radiosa». Ad un sovrano che, senza conoscerlo, l’incontra, egli dà subito l’impressione di un suo pari: «Hai un corpo perfetto, sei risplendente, ben nato, di nobile aspetto, hai un colorito dorato, candidada dentatura, sei forte. Tutti i segni che sei di nobile nascita sono nella tua forma, tutti i segni dell’uomo superiore». Un temutissimo bandito si chiede stupefatto, incontrandolo, chi sia «questo asceta che viene solo, senza compagni, come un conquistatore». Non solo nel corpo e nella tenuta sono in lui palesi le caratteristiche di un kshatriya, di un nobile guerriero di alto lignaggio, ma la tradizione vuole che egli presentasse appunto i «trentadue attributi» che secondo un’antica dottrina brahmanica contrassegnerebbero l’«uomo superiore» – mahâpurisa-lakkhânâni - colui, per il quale «esistono soltanto due possibilità, senza una terza»: o, restando nel mondo, divenire un cakravatin, cioè un re dei re, un «sovrano universale», il prototipo ario del «Signore del mondo», ovvero rinunciando al mondo, divenire un perfetto svegliato, il Sambuddha, «colui che ha rimosso il velo». La leggenda vuole che al principe Siddharta si fosse già preannunciato, nella visione fatidica di una ruota turbinosa, un destino d’impero, da lui però respinto in nome dell’altra via, della via verso la pura trascendenza. Ed è parimenti significativo che, secondo la tradizione, il rito funerario per il Buddha, conformemente alla sua volontà, non sarebbe stato quello di un asceta, ma quello di un sovrano imperiale, di un cakravartin. Malgrado l’attitudine assunta dal buddhismo di fronte al problema delle caste, si vuole, del resto, che in genere i bodhisattva, coloro che potranno un giorno divenire degli Svegliati, non nascano mai in una casta contadinesca o servile, ma o in quella guerriera o in quella brahmana, cioè nelle due più alte caste della gerarchia aria: anzi si dice, in relazione ai tempi, essenzialmente in quella guerriera, fra i kshatriya.

Ora questa nobiltà aria e questo spirito guerriero si riflettono nella stessa dottrina del risveglio. L’assimilazione della ascesi buddhista alla guerra e delle qualità dell’asceta alle virtù del guerriero e dell’eroe sono ricorrentissime nei testi canonici: «lottante asceta con petto pugnante», «avanzata con i passi del combattente», «eroe vincitore della battaglia», «supremo trionfo della battaglia», «condizioni favorevoli pel combattimento», qualità di «un guerriero buono per il re, ben degno del re, che è un ornamento del re», ecc. – fino a massime, come questa: «morte in battaglia è pur meglio che vivere sconfitti». Quanto alla «nobiltà», essa qui si lega all’aspirazione verso una libertà sovrannaturalmente potenziata. «Come toro, ho spezzato ogni laccio» – dice lo stesso principe Siddharta. «Scaricato dal peso, ha distrutto i vincoli dell’esistenza» – è il tema ricorrente di continuo nei testi con riferimento a chi ne segue la via. Come «sommi di difficile accesso, simili a leoni solitari» sono designati i Compiuti. Lo Svegliato, quale «santo superbo è salito sulle cime piú eccelse dei monti, si è spinto nelle selve piú lontane, è disceso in abissi profondi». Egli può dire: «Non servo nessuno, non ho bisogno di servire nessuno», idea, che fa ricordare quella «razza autonoma e immateriale», «senza re» perché è essa stessa regale, di cui si ebbe a parlare anche in Occidente. È «asceta, puro, conoscitore, libero, sovrano».

Questi sono alcuni degli attributi che vedremo ricorrere già nei testi più antichi sia per il Buddha, sia per coloro che procedono sulla sua stessa via. La parte che in tali attributi ha l’abituale esagerazione di ogni glorificazione, non pregiudica il loro significato, almeno, di testimonianze in ordine alla idea generale che sempre si ebbe sia della via e dell’ideale indicati dal principe Siddharta, sia della di lui razza spirituale. Il Buddha è eminentemente il tipo dell’asceta regale e la sua naturale controparte, come dignità, è colui che, come un Cesare, poté dire comprendere, la propria stirpe, la maestà dei re cosí come la sacrità degli dèi, nel potere dei quali stanno anche coloro, che sono dominatori di uomini. Si è visto or ora che proprio questo senso ha, del resto, l’antica tradizione relativa all’essenziale identità della natura di colui che può essere soltanto o figura imperiale, o perfetto Svegliato. Ci troviamo presso gli àpici del mondo spirituale ario.

Per l’arianità dell’insegnamento buddhistico originario, una particolare caratteristica è l’assenza di quelle manie proselitarie, che quasi senza eccezione sono in ragione diretta col carattere plebeo, antiaristocratico, di una credenza. Uno spirito ario ha troppo rispetto per l’altrui persona e troppo spiccato il senso della propria dignità per cercar di imporre ad altri le proprie idee, anche quando sa che esse sono giuste. E non è senza relazione a ciò che nel ciclo originario delle civiltà arie, sia d’Oriente, sia d’Occidente, non troviamo nemmeno figure divine che si preoccupino troppo degli uomini, che quasi corrano dietro ad essi per attirarli e «salvarli». Le cosiddette religioni di salvazione – le Erlosungsreligionen, come si dice in tedesco – non appaiono, in Oriente come in Occidente, che tardivamente, presso ad un allentamento della tensione spirituale originaria, ad un offuscamento della coscienza olimpica e, non per ultimo, ad influssi di elementi etnico-sociali inferiori. Che le divinità poco possano per gli uomini, che sia fondamentalmente l’uomo l’artefice del proprio destino in ordine agli stessi sviluppi oltremondani di esso – questa veduta caratteristica del buddhismo originario ne mette bene in luce la diversità rispetto a molte forme tarde, soprattutto mahayâniche, nelle quali trovò modo di infiltrarsi il motivo di esseri mitici affaccendantisi intorno agli uomini per condurli tutti alla salvezza.

In fatto di metodo e di insegnamento, nei testi originari vediamo dunque che il Buddha espone la verità come egli l’ha scoperta, senza imporsi a nessuno né ricorrere a mezzi estrinseci per persuadere o «convertire». «Chi ha occhi, vedrà le cose» – è la formula sempre ricorrente nei testi. «Venga da me un uomo intelligente – è scritto – non tortuoso, non simulatore, un uomo dritto: io l’istruisco, gli espongo la dottrina. Seguendo l’istruzione, dopo non molto tempo egli stesso riconoscerà, egli stesso vedrà, che così invero ci si libera completamente dai vincoli: dai vincoli, cioè, dell’ignoranza». Segue il paragone del bambino che si libera gradamente dagli impedimenti, paragone del tutto corrispondente a quello della «maieutica» platonica, dell’arte di aiutare le nascite. Ed ancora: «Io non vi sforzerò, come il vasaio con la creta cruda. Riprendendo riprendendo, io parlerò, premendo premendo. Chi è sano resisterà». Del resto, l’originaria intenzione del principe Siddharta, una volta conseguita la conoscenza della verità, era di non comunicarla a nessuno, non per malanimo, ma riconoscendone la profondità e prevedendo l’incomprensione dei più. Venuto poi a riconoscere che in fondo vi sono anche più nobili nature, menti meno offuscate, per compassione espone la dottrina, mantenendo però sempre distanza, distacco e rispetto. Che i discepoli vengano o meno a lui, che seguano o no i precetti ascetici, «sempre lo stesso egli rimane». Ecco il suo stile: «Conoscere la persuasione e conoscere la dissuasione; conoscendo la persuasione e conoscendo la dissuasione non persuadere e non dissuadere: esporre solo la realtà». «È mirabile – viene anche detto – è straordinario come nessuno esalti la propria e disprezzi l’altrui dottrina in un Ordine, in cui pur vi son tanti guidatori per mostrarla».

Anche questo è stile ario. Certo, la potenza spirituale vivente nel Buddha non poté non manifestarsi, talvolta, in modo quasi automatico, affermandosi direttamente e imponendo un riconoscimento. Perciò come «prima orma dell’elefante» viene per esempio indicato il fatto che dotti, esperti dialettici i quali aspettavano al guado il Buddha per stroncarlo con i loro argomenti, al suo apparire chiedono solo di udire la dottrina, o quello che, quando il Buddha affronta una discussione, la sua parola non può fare a meno di agire «come un furioso elefante o una fiammeggiante vampa». O si ha il caso dei suoi antichi compagni che, credendo che avesse abbandonata la via dell’ascetismo, si proponevano di non accoglierlo, ma poi sùbito gli vanno incontro; o quello del feroce bandito Angulimâyo al quale la figura maestosa del Buddha s’impone. Certo è tuttavia, che il Buddha, nella sua superiorità, si è sempre astenuto dall’usare mezzi indiretti di persuasione e, in ogni caso, mai di quelli che fanno leva sulla parte irrazionale, sentimentale o emotiva dell’essere umano. Anche questa regola è importante: «Voi non dovete, o discepoli, mostrare ai laici il miracolo dei poteri supernormali. Chi farà ciò è colpevole di una cattiva azione». Ciò comporta la rinuncia al «miracolo» come mezzo estrinseco per suscitare una «fede». La propria persona va messa da parte: «In verità, i nobili figli espongono le loro conoscenze superiori in modo simile, presentando la verità, senza riferirsi come che sia allo lora persona». «Che dunque? – dice il Buddha a chi da tempo anelava di vederlo – Chi vede la legge vede me e chi vede me vede la legge. In verità, vedendo la legge si vede me e vedendo me si vede la legge». Svegliato egli stesso, il Buddha vuole solamente propiziare il risveglio in chi ne è capace: risveglio, in primo luogo, di una dignità e di una vocazione, in secondo luogo, risveglio di una intuizione intellettuale. Chi è capace d’intuire – è detto – non può non approvare. Il miracolo nobile, «conforme alla natura aria» – ariyaiddhi - opposto a quello che si basa su di una fenomenologia estranormale e che vien giudicato non ario – anariyaiddhi - si riferisce proprio al primo punto, è il «miracolo dell’insegnamento» che desta la facoltà di discernere, che fornisce una nuova, giusta misura per tutti i valori, per la quale la formula canonica più tipica è: «Così è – egli intende – Vi è il nobile e vi è il volgare, e vi è una libertà più alta di questa percezione dei sensi». Per il secondo punto, ecco un passo caratteristico: «Il suo cuore [quello del discepolo] si sentì ad un tratto pervaso di sacro entusiasmo e tutta la sua mente si dischiuse pura, chiara, splendente come il disco luminoso della luna: e gli apparve intera la verità». Tale è la base dell’unica «fede», dell’unica «retta fiducia», che nell’ordine degli aríya è tenuta in conto: «fiducia motivata, radicata nella visione, salda», tale che «nessun penitente o sacerdote, nessun dio o diavolo, nessun angelo o chi altri nel mondo può distruggerla».

orse ad un ultimo punto vale la pena di accennare brevemente. Il fatto che il Buddha nei testi pâli non appare come un essere sovrannaturale sceso in terra a diffondere una «rivelazione», ma come colui che espone una verità da lui stesso veduta e indica una via che lui stesso si è aperta, come colui che, giunto egli stesso all’altra riva, aiuta altri a passarvi, una tale traversata avendola compiuta con le proprie forze, senza un maestro che abbia dovuto illuminarlo – questo fatto non deve condurre ad umanizzare oltre misura la figura del Buddha. Anche a prescindere dalla teoria dei bodhisattva, la quale troppo spesso risente di un elemento fiabesco e si è definita solo in un periodo posteriore, nei testi originari la concezione del cosiddetto kolankola ci rende sempre possibile d’intendere nel Buddha la riemergenza di un principio luminoso già accesosi in precedenti generazioni: cosa che si accorderebbe con quanto diremo sul significato storico della dottrina buddhista del risveglio. In ogni caso, quali pur siano gli antecedenti, è arduo tracciare un limite fra quel che è umano e quel che non lo è più, quando si tratta di essere che ha realizzato in sé l’elemento libero da morte – amata -, che si presenta come incarnazione viva di una legge centrata in ciò che è assolutamente trascendente e che da nulla può esser «incluso» – apariyâ-pannam. Anche qui si può fare una quistione di differenza di natura. Dipende dalla distanza che i vari esseri sentono fra sé e la realtà metafisica il fatto, che una forza venga vissuta come «grazia», che una conoscenza si presenti con carattere di «rivelazione» nel senso divenuto prevalente in Occidente a partire dal profetismo ebraico, che l’annunciatore di una legge assuma tratti «divini» anziché presentarsi come colui che ha distrutto l’ignoranza e si è «ridestato». Questo divario non dice, in sé, assolutamente nulla in ordine alla dignità e al livello spirituale di un insegnamento, come pure della stessa persona del suo annunciatore. Certo è solo, che il primo caso – quello delle «rivelazioni» e degli dèi-uomini – non può non dare un senso di estraneità ad uno spirito ario, ad un «nobile figlio» – kula-putta - specie in una epoca in cui nell’umanità non si era ancor del tutto offuscato il ricordo delle origini.

Infine, una breve considerazione sul Buddha storico come modello. Se egli non si presenta dunque come un dio, pure, come si è detto, da tutta la tradizione originaria egli è stato considerato come un uomo giunto con le sue sole forze al risveglio, quindi al superamento del limite individuale. Come kshatriya, il principe Siddharta ebbe naturalmente la usuale iniziazione di casta, ma non è attestato nessun suo collegamento con qualche organizzazione esistente quale condizione per la sua realizzazione. Devesi dunque pensare ad uno di quei casi eccezionali nei quali un superamento della condizione umana e lo sbocco nella trascendenza sono avvenuti per via autonoma. Ci si potrebbe riferire alla violenza che, secondo il detto evangelico, la porta dei Cieli può subire, o anche al Parsifal di Wolfram von Eschenbach. Dal Buddha è nata una tradizione e probabilmente sono nate anche linee di trasmissione iniziatica fuor dalle semplici scritture. Ma se ci si riferisce al Buddha, la verità è quella ora accennata: egli fu principio a sé e attesta la possibilità di una ascesa autonoma, presso la quale una possibile, contemporanea discesa di forze superiori, dall’alto, fino ad una unità, deve essere considerata come da essa condizionata.

Avendo accennato all’eccezionalità di una simile congiuntura, l’esempio del Buddha non deve andar incontro alle fisime di «autoiniziazione» di certi spiritualisti moderni ma, nel contempo, deve porre anche un limite all’insistere, da parte di alcuni elementi tradizionalisti, sull’imprescindibilità di un collegamento «regolare» e quasi burocratico con organizzazioni per chiunque aspiri al superamento dell’esistenza condizionata. Il fatto è che un tale collegamento potrà essere per molti necessario, ma per un numero ancor più grande di persone esso è così poco sufficiente, da rendere legittima la domanda della misura in cui sia, dopo tutto, anche necessario. Qualcosa come lo spirito e l’atteggiamento del Buddha storico è una qualificazione essenziale per qualsiasi vera realizzazione iniziatica, cioè analoga a quella della via buddhista del risveglio. 

Julius Evola

mercoledì 24 agosto 2011

Harlock Lucania 2011 > Quota30

Obiettivo (quasi) raggiunto

Ce l'abbiamo messa tutta e siamo arrivati vicino ad un obiettivo che quest'anno per via della crisi e del cambiamento di metodo poteva risultare inarrivabile. Invece ce l'abbiamo fatta grazie al contributo di molti e soprattutto grazie a quel metodo abbiamo riconosciuto amici e menefreghisti. Per i più, una occasione per ritrovarci insieme e sostenere le azioni virtuose, per gli altri una ennesima occasione persa. Chi dà a chi è in difficoltà, a chi ha bisogno, alle azioni di salvaguardia delle comunità virtuose, coltiva il proprio essere. Chi pensa di potercela fare da solo, si rallegrerà del proprio isolato individualismo affastellandosi in un velleitarismo politico che non da frutti ormai da decenni. Non venga a blaterare di valori e di scenari alla "volemose bene". Il dado è tratto. I ragazzi di Harlock hanno gioito. Questo è un dato. Grazie di Cuore.

Centro Studi Aurhelio

lunedì 1 agosto 2011

Harlock Lucania 2011 > Quota30












Anche quest’anno il Centro Studi Aurhelio, a sostegno della Casa Famiglia Harlock, decide di ripetere il progetto Quota 30 che lo scorso anno ha riscosso partecipazione e successo. L’iniziativa consiste nel trovare, minimo, 30 sottoscrittori per una quota di 10 euro cadauna, il cui totale garantirà ai ragazzi una serena permanenza in terra lucana. Durante la settimana raccoglieremo i fondi e ci vedremo per un aperitivo solidale Sabato 6 Agosto alle 12 a Santa Marinella, presso il Bar dei Portici sulla Via Aurelia, come termine ultimo.

Harlock è una struttura, in provincia di Viterbo, che ospita ragazzi che necessitano di un collocamento alternativo alla famiglia, almeno in una fase della loro vita. Si tratta di Minori che rientrano in progetti alternativi alla detenzione carceraria, minori vittime di abusi e minori che hanno ottenuto l’asilo per la precaria e pericolosa situazione nei loro paesi di origine o minori stranieri non accompagnati. L’equipe si occupa dell’analisi e soluzione delle loro più elementari necessità oltre a quelle più complesse, come il disagio psicologico, reperimento documenti e avviamento al lavoro. I ragazzi frequentano regolarmente la scuola, studiano, praticano sport e, visto che se lo sono meritati, si vuole mandarli circa un mese in vacanza. Tale volontà purtroppo può rimanere tale, vista la mancanza di fondi. Il Centro Studi Aurhelio, rinnova la sua azione di sostegno per le realtà virtuose e promuove anche quest’anno il progetto Harlock Lucania 2011>Quota30. L’iniziativa consiste nel trovare, minimo, 30 sottoscrittori per una quota di 10 euro cadauna, il cui totale garantirà ai ragazzi una serena permanenza in terra lucana. Naturalmente il progetto si avvale anche del sostegno di alcune realtà locali e di realtà associative di Tramutola – PZ. Per ognuno di noi sarà un piccolo sforzo, ma il risultato potrà essere grande.
Trasmettere l’idea che si ottengono i frutti solo con l’impegno ed il sacrificio.

Centro Studi Aurhelio, idee che diventano azioni.
Contatti, sostegno, info: cst.aurhelio@gmail.com

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Operazione atterraggio Arcadia in Lucania

Questo anno la ciurma e i pirati della casafamiglia “Harlock”, caleranno sul paese di Tramutola (Pz) per giocare un torneo di calcetto, andare in piscina, fare gite al fiume ed in montagna e chi più ne idèa, più ne realizza. I ragazzi saranno accolti insieme agli educatori in una struttura messa a disposizione dalla Protezione Civile e con annessa cucina e servizi. Abbiamo dei basisti sul territorio: l’Associazione politico-culturale “Tramutola viva”. Con i nostri ragazzi sarà ancora più viva, forse troppo. Sarebbe bello poter avere una divisa calcistica dedicata all’evento, magliette ed un po’ di vil pecunia per pizzate, spesa e via attivandosi.

Siate arrembanti nel supportarci. Piratescamente grazie. I Ragazzi e l’Equipe

Casa Famiglia HARLOCK
01016 Tarquinia (VT) - Alberata Dante Alighieri 29
Tel/Fax 0766855179 - casafamiglia.harlock@gmail.com

lunedì 9 maggio 2011

Cittadella - Saint Exupèry

Un libro bellissimo e misterioso. Un abbozzo di romanzo, contenuto nella famosa valigetta che Antoine de Saint Exupéry - autore dell'indimenticabile Piccolo Principe - portava sempre con sé e dalla quale si separò solo una volta: prima di partire per il suo ultimo volo di guerra, dal quale non sarebbe più tornato. Lo si può leggere mille volte e trovarvi sempre qualcosa di nuovo, di inaspettato, di vero. Leggiamolo, di nuovo.

Così alla sera io cammino a passi lenti tra il mio popolo e tacitamente lo circondo del mio amore. Sono soltanto inquieto per coloro che ardono di una vana luce, per il poeta pieno d’amore per la poesia ma che non scrive il suo poema, per la donna innamorata dell’amore ma che, non sapendo scegliere, non può divenire; tutti pieni di angoscia, poiché sanno che io li potrei guarire di questa angoscia se permettessi loro di fare quell’offerta che esige sacrificio, scelta e dimenticanza dell’universo. Perché il tal fiore esclude innanzi tutto ogni altro fiore. E tuttavia solo a questa condizione esso è bello. Così avviene per l’oggetto dello scambio. E lo stolto che va a rimproverare a quella vecchia il suo ricamo col pretesto che avrebbe potuto tessere qualcos’altro, preferisce dunque il nulla alla creazione. Così cammino e sento salire la preghiera nell’odore dell’accampamento nel quale tutto matura e si forma in silenzio, lentamente, senza quasi che ci si pensi. Il frutto, il ricamo o il fiore, per divenire, è nel tempo che sono immersi.

Durante le mie lunghe passeggiate ho capito che il valore della civiltà del mio impero non riposa sulla qualità dei cibi ma sulla qualità delle esigenze e sul fervore del lavoro. Questo valore non è dato dal possesso, ma dal dono di sé. E’ civilizzato innanzi tutto quell’artigiano che si ricrea nell’oggetto; in compenso egli diviene eterno, in quanto non teme più di morire. Ma quest’altro che si circonda di oggetti di lusso comperati dai mercanti, non ne trae alcun vantaggio se non ha creato nulla, anche se nutre il suo sguardo di cose perfette. Conosco quelle razze imbastardite che non scrivono più i loro poemi ma li leggono, che non coltivano più la loro terra ma si fondano anzitutto sugli schiavi. Contro di loro le sabbie del Sud preparano incessantemente nella loro miseria creatrice le tribù vive che saliranno alla conquista delle loro provviste morte. Non amo chi è sedentario nel cuore. Quelli che non offrono nulla non divengono nulla. La vita non servirà a maturarli, e il tempo per loro fluisce come una manciata di sabbia disperdendoli. Che cosa offrirò a Dio in loro nome?

Da Cittadella di A. de Saint-Exupéry

giovedì 20 gennaio 2011

Riflessioni su Risorgimento ed Unità d'Italia

Continuiamo la pubblicazione di importanti contributi sulle questioni relative all'unità d'Italia, al risorgimento ed al rapporto con la destra radicale e moderata.

«ALL’ITALIA DI OGGI SERVONO ÉLITES

PORTATRICI DI UNA CULTURA UNITARIA»

Intervista al prof. Sandro Consolato

ROMA - Nel Risorgimento italiano le idee federaliste non mancano. Molti pensatori vedono proprio in questo modello organizzativo lo sbocco del processo unitario nazionale. In ambito moderato, ad esempio, ben prima del 1861 si progetta una Italia federale, come somma degli Stati esistenti, guidata da una figura carismatica e super partes (il pontefice). A sostenere questa linea è, principalmente, Vincenzo Gioberti, secondo il quale il Risorgimento non consiste nella creazione di una civiltà nuova, bensì nel riannodarsi del filo della storia nazionale. Una reinterpretazione del presente, insomma, fondata sui valori specifici e le qualità indiscutibili del “genio” italico (pelasgico, dorico, romano, ma anche, più modernamente, cattolico). Queste riflessioni sono la base di partenza per un colloquio più ampio sul centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, con il prof. Sandro Consolato. Nato a Bagnara Calabra nel 1959 è laureato in Filosofia a Messina, dove risiede e insegna Italiano, Latino e Storia nei Licei. Consolato è uno studioso di storia delle religioni e dei rapporti tra politica, religione ed esoterismo. Ha pubblicato il saggio “Julius Evola e il Buddhismo” (SeaR, Borzano RE, 1995) ed ha collaborato alle riviste “Arthos” e “Politica Romana”. Cura dal 2001 per la casa editrice romana “I libri del Graal” la rivista di studi storici e tradizionali “La Cittadella”. È già intervenuto nel dibattito sui centocinquant’anni dell’Unità con un ampio articolo apparso sul quotidiano “Il Foglio”, anticipazione del suo libro “Dell’elmo di Scipio. Risorgimento, storia d’Italia e memoria di Roma”, la cui uscita è prevista per il 2011.

Entriamo subito nel vivo dell’argomento. Il Risorgimento fu davvero la resurrezione del mito di Roma per la nazione italiana o, come ormai si contesta da più parti, può definirsi un semplice processo di espansione del Regno di Sardegna?

«Il Risorgimento propriamente detto è un fenomeno storico che occupa un tempo abbastanza lungo, dalla fine del ‘700 fino al 1870, e di cui l’estrema appendice è la Grande Guerra, nella misura in cui poté apparire come la IV guerra di indipendenza. In questo arco di tempo ci stanno dentro molte cose, uomini e idee tra loro anche molto diversi, ma il dato fondamentale di ciò che chiamiamo Risorgimento è l’aspirazione, inizialmente coltivata da delle minoranze intellettuali e poi da strati sempre più vasti della popolazione di tutta l’Italia, all’unità e all’indipendenza nazionali. Il mito di Roma (nel senso di Roma antica) non fu, nel processo risorgimentale, sempre presente o gradito a tutti coloro che volevano l’unità. Esso fu proprio soprattutto alla sinistra risorgimentale e ricevette un grande impulso dall’esperienza della Repubblica Romana del 1849. Il mito di Roma è presente in un veneziano come Foscolo e in un lucano come Lomonaco in età napoleonica, in Mazzini, in Garibaldi, in Amari, in Crispi e anche in un Quintino Sella più tardi. Silvio Spaventa, esponente meridionale della Destra storica, giustificava il suo progetto di nazionalizzazione delle ferrovie, osteggiato dai moderati toscani, con il fatto che a Roma le strade erano dello Stato... Comunque sia, fu sentimento comune di tutti i patrioti, anche dei moderati, non troppo inclini al mito alfieriano e mazziniano della Terza Roma, che l’Italia avesse dei diritti storici all’unità e all’indipendenza dati dal suo grande passato, e la massima grandezza era stata indubitabilmente quella di Roma antica. Che l’inno di Mameli evochi la Roma degli Scipioni, le coorti eccetera, è un fatto che mi sembra già significativo. Quanto a chi ritiene il Risorgimento “un semplice processo di espansione del Regno di Sardegna”, può avere ragione solo se bada a quelli che furono i sentimenti di una parte del mondo sabaudo (in particolare di quello militare). La realtà è diversa. Si possono riconoscere degli squilibri tra le regioni d’Italia dopo l’unificazione, ma vederli tutti come effetto della cosiddetta “conquista regia” è sbagliato: tra l’altro il cuore del Regno di Sardegna, il Piemonte, di fatto nel Regno d’Italia non mantenne un ruolo veramente egemonico, come è stato invece il caso dell’Inghilterra nella creazione della Gran Bretagna. L’Italia arriva al cinquantenario del Regno, nel 1911, complessivamente cresciuta, e ha un peso politico, militare, economico che prima, spezzettata, non aveva, che nessuno stato regionale aveva».

Ma allora quali questioni ci pone, oggi, l’unità d’Italia. Questo Paese può dirsi, oggi, davvero unito?

«Il problema dell’Italia non è l’unità. Il problema è la cattiva politica, la diffusa corruzione, la criminalità organizzata e il suo intreccio tentacolare con il mondo economico e politico. È un grave errore dire, tanto a Nord come a Sud, che tutti i nostri mali derivano dall’unificazione nazionale. Sarebbe più corretto dire, con particolare riferimento al Sud, che l’Unità non sanò tutta una serie di problemi che c’erano già prima: la forte corruzione in campo amministrativo, ad esempio.

Non crede che le attuali spinte secessioniste, sempre più forti, del Nord pongano di nuovo, clamorosamente dopo centocinquant’anni, il problema della possibile perdita dell’indipendenza politica dell’Italia sullo scacchiere europeo?

«Sì, io temo che la secessione possa essere una prospettiva reale. In Europa si è dimostrato che si può secedere anche senza violenza, come nel caso della Cecoslovacchia e come potrebbe accadere in Belgio. Al Nord certuni pensano che, liberatisi dal Sud, una repubblica settentrionale sarebbe un grande paese, in grado di contare di più. In realtà la repubblica del Nord finirebbe per entrare nell’orbita dell’egemonia tedesca, probabilmente. E vi è chi, tra i leghisti, guarda apertamente con favore a tale prospettiva. Tutti hanno potuto vedere certi servizi televisivi in cui militanti leghisti si dichiaravano idealmente sudditi degli Asburgo e così via».

Le speranze suscitate dall’Illuminismo e i valori della Rivoluzione francese furono alla base dello Stato unitario intrecciandosi con i richiami alla tradizione, alla Roma degli antichi padri. Quale può essere, invece, il nostro orizzonte futuro? Quali ideali di riferimento possono, a suo avviso, rilanciare quello spirito unitario?

«La rivoluzione francese, o meglio, la successiva invasione francese dell’Italia, portò un grande scossone politico-militare nella Penisola, uno scossone senza il quale forse l’unità sarebbe stata raggiunta molto più tardi, e probabilmente in forma diversa. Ma l’idea unitaria non è l’effetto dell’influenza francese: essa nelle élites italiane è una vocazione presente da molto tempo, e con una forte relazione con la cultura letteraria di tali élites, che è una cultura unitaria. Un positivo orizzonte futuro si potrà delineare se in Italia torneranno ad esserci delle élites portatrici di una cultura unitaria capaci di divulgare e rendere popolari certe idee, e di connettere tali idee, il che è compito della politica, ad una rinascita dello Stato e delle virtù civiche, ad un rilancio dell’economia nazionale e, soprattutto, ad una vera e propria rivoluzione nel Meridione».

Concentriamoci sul Sud. Una più attenta storiografia ha rivelato come, ad esempio e per taluni aspetti, il brigantaggio sia stato una forma di guerra civile nata nel nostro Mezzogiorno dopo l’annessione al Regno d’Italia. Nell’attuale gap tra Nord e Sud, caratterizzato dalla forte emergenza criminale del nostro Mezzogiorno, ci portiamo ancora dietro i segni di quelle vicende a suo avviso?

«Che il cosiddetto “brigantaggio” sia stato una forma di guerra civile non è una novità, da un punto di vista storiografico. Il fatto è che questo tema sta piuttosto diventando una moda, correlata all’attuale crisi del sentimento nazionale. Comunque, la divaricazione tra Nord e Sud a mio avviso oggi non va letta andando indietro al 1860. Oggi questa divaricazione sta aumentando rispetto a solo vent’anni fa, poiché l’attenzione verso il Meridione non è aumentata ma è diminuita. Il problema fondamentale del Sud sono le sue classi dirigenti, le quali hanno tutelato solo i propri privilegi e creato consenso solo attraverso il clientelismo e lo sperpero del denaro pubblico, prima nazionale e ora anche europeo. Le classi dirigenti hanno anche guastato ciò che vi era di sano nel popolo meridionale, che non era affatto un popolo di fannulloni, visto che per lo più era formato da contadini che lavoravano sodo dalla mattina alla sera. Quanto alla criminalità, va detto chiaramente che va distinta dal fenomeno del brigantaggio postunitario. Se si guarda bene, questo interessò delle aree che non sono quelle storiche della ‘ndrangheta e della camorra: la Basilicata, ad esempio. Gli avvenimenti tristi di allora possono aver lasciato dei segni negativi nella popolazione, quali quelli del sentire lo Stato come qualcosa di estraneo quando non nemico».

Una certa interpretazione storica sostiene che nel Risorgimento italiano sia stata assai limitata la partecipazione della masse popolari del Sud, soprattutto contadine, agli eventi che hanno caratterizzato l’unità nazionale e che il Risorgimento stesso possa essere considerato, in effetti, una sorta di rivoluzione mancata per il nostro Mezzogiorno. Che pensa a tale proposito?

«Le masse popolari in tutta Italia, a quell’epoca, erano costituite sostanzialmente dai contadini. E da questo punto di vista, l’estraneità al processo risorgimentale riguarda tanto i contadini del Veneto quanto quelli del Sud. I contadini erano molto legati alla Chiesa, e il loro massimo di partecipazione, nel ’48 nel Lombardo-Veneto ad esempio, si ha quando anche il clero prende posizione anti-austriaca. Al Sud pure vediamo una parte del clero con sentimenti antiborbonici, e questo spiega come vi siano preti, monaci e suore che salutano favorevolmente Garibaldi nel 1860. Allo stesso tempo nel mondo contadino ci si aspetta anche, da Garibaldi, un miglioramento sociale ed economico, che di fatto per i contadini non ci fu. Quello che però bisogna evidenziare, parlando del Risorgimento e del Meridione, è che non è affatto vero che il Sud fu estraneo al processo risorgimentale, che lo subì come una iniziativa voluta e venuta dal Nord. Come emerge anche in un film come “Noi credevamo” (di cui qui non voglio evidenziare i limiti e gli errori da un punto di vista storico), il Sud fu parte attivissima dei moti indipendentistici, ed espresse delle élites, sia nell’aristocrazia che nella borghesia (anche quella piccola, artigiana) che sacrificarono vita, privilegi e beni nella lotta antiborbonica, e questo non va assolutamente dimenticato. Vorrei anche sottolineare che un uomo come Crispi, figura importante della sinistra risorgimentale meridionale, è vero che attua la repressione dei fasci siciliani, ma immediatamente vara un suo proprio progetto di legge agraria per la Sicilia che era il più avanzato che fosse mai stato proposto, volto alla creazione di un vasto ceto di piccoli proprietari terrieri, e questa volta non più sottraendo terre ai demani o alla manomorta ecclesiastica ma al latifondo privato. Tale progetto purtroppo fallì, insieme al resto della sua politica, con la sua caduta, voluta da un grande fronte che andava dai latifondisti siciliani legati al marchese di Rudinì ai gruppi industriali del Nord ostili alla politica coloniale e meridionalistica del presidente del Consiglio, gruppi straordinariamente in sintonia con la sinistra socialista settentrionale».

Per chiudere, con quali auspici e speranze, a suo avviso, ci accingiamo a festeggiare questi centocinquant’anni di storia unitaria del nostro Paese?

«Noi dobbiamo festeggiare i centocinquant’anni dello Stato unitario non per dirci che tutto è andato magnificamente ieri e procede benissimo oggi, ma per sottolineare che a quel risultato, che trova pieno compimento solo con la liberazione di Trento e Trieste nel 1918, si è giunti grazie ad una aspirazione di secoli delle menti più alte di tutta l’Italia e con il sacrificio di tanti uomini e non poche donne che hanno creduto in una Italia unita che fosse anche una Italia grande e migliore. I centocinquant’anni devono servire, più che a una celebrazione, ad un esame di coscienza della nazione, a ritrovare le ragioni, le nuove oltre che le vecchie, per cui è comunque meglio che l’Italia sia unita (con o senza federalismo) piuttosto che divisa. Oggi, poi, guardare al Risorgimento può anche dare un salutare modello al mondo politico: in poche altre occasioni i diversi “partiti” politici (e nel Risorgimento ve ne erano diversi anche entro i due grandi schieramenti dei liberal-moderati e dei democratici) hanno saputo anteporre uno scopo grande ed unico (allora l’indipendenza e l’unità nazionali) ai propri progetti di organizzazione dello Stato, dell’economia e della società (anche se bisogna riconoscere che personalità come Mazzini dovettero registrare amarissime delusioni dal raggiungimento di quello che consideravano il fine prioritario, una volta che questo si realizzò nelle forme politiche e socio-economiche volute essenzialmente da Cavour)».


Francesco Pungitore

da www.ildomani.it (che gentilmente ringraziamo) di lunedì 27 dicembre 2010

lunedì 20 dicembre 2010

Aspettando una rinascita - il Solstizio d’inverno

Camminando per strada in questi giorni non possiamo che notare quel particolare clima gioioso che, come tutti gli anni, precede il Natale. Sempre più spesso però, nell’immaginario moderno, questa festa è vissuta esclusivamente sotto l’aspetto commerciale e materialistico che essa ha assunto nella nostra società, ponendo inevitabilmente in secondo piano – quando non addirittura portandoci a vivere inconsciamente – il suo vero significato.

Innanzitutto è a nostro avviso necessario partire da ancora più lontano: ossia dal fatto che, con il progressivo allontanamento dell’uomo dalla natura, stiamo diventando sempre più insensibili al suo ciclo e alle sue molteplici manifestazioni. La stragrande maggioranza delle persone, oggigiorno, vive il susseguirsi delle varie stagioni esclusivamente per il fatto che si accorge del cambiamento di temperatura e, qualora sia ancora abituata a farlo, osservando nella natura dei cambiamenti evidenti.

Ma quale nesso si pone dunque in essere tra il mondo naturale con la sua ciclicità e una festa apparentemente legata al costume popolare e alla religione?

Ebbene l’aspetto più rilevante, e tutt’altro che casuale, del Natale è che esso si festeggia in prossimità di un altro avvenimento molto importante, ossia quello del solstizio d’inverno, che cade il 21 dicembre. Il solstizio d’inverno è un avvenimento di particolare rilevanza perché è il giorno più corto dell’anno, durante il quale la Terra si trova nel punto più lontano dal sole nel suo ciclico girare attorno ad esso.

Per tutti i popoli antichi, questo periodo dell’anno riveste un fondamentale aspetto simbolico, di carattere esoterico. Infatti, a partire dal giorno seguente il solstizio, le giornate ricominciano impercettibilmente ad allungarsi, simboleggiando la vittoria del sole sulle tenebre e il ritorno di un periodo di luce, che troverà il suo apice nel solstizio d’estate, giorno più lungo dell’anno.

Durante la notte più lunga dell’anno dunque, dove la luce pare abbia lasciato definitivamente spazio alle tenebre, ecco che anticamente si accendevano dei fuochi per propiziare questa vittoria e rinascita. Tale avvenimento però, non era vissuto esclusivamente come di carattere esteriore, bensì era un momento durante il quale fermarsi a riflettere su di noi e sul nostro agire, facendo della sincera critica introspettiva, seguita poi dalla celebrazione di questa rinascita di luce anche in noi stessi.

La vittoria della luce sulle tenebre sancisce pertanto un ritrovato (e rinnovato) stato dell’essere, che dopo aver affrontato e lasciatosi alle spalle gli aspetti più bui che in esso albergavano, è pronto a rimettersi in cammino verso un mondo luminoso con rinfrancata freschezza.

Con queste poche righe speriamo di aver contribuito in minima parte a tenere vivo il senso e il significato di quello che è forse il momento più significativo dell’anno, con l’augurio che questa consapevolezza cresca e scalzi il materialismo ormai insito ad esso e con la certezza che un uomo che vuole considerare se stesso in sintonia con la natura non può non riconoscerlo.

Un buon solstizio a tutti!

www.azionetradizionale.com

mercoledì 8 dicembre 2010

La grande parodia o la spiritualità alla rovescia

La costituzione della “contro-tradizione” ed il suo apparente momentaneo trionfo, come può rendersi conto senza difficoltà chi ha seguito sin qui le nostre considerazioni, saranno propriamente il regno di quella che abbiamo chiamato “spiritualità alla rovescia”: si tratterà naturalmente solo di una parodia della spiritualità, o meglio di una sua imitazione in senso inverso, di modo che avrà tutta l’apparenza d’essere l’opposto di tale spiritualità. Se abbiamo parlato di apparenza e non di realtà, è perché, quali che siano le sue pretese, nessuna simmetria od equivalenza è possibile in un campo del genere. Su questo punto è doveroso insistere perché molti, lasciandosi ingannare dalle apparenze, credono nell’esistenza di due principi opposti che si contendono la supremazia del mondo: è una concezione erronea, analoga in fondo a quella comunemente attribuita a torto o a ragione ai Manichei, e che, in linguaggio teologico, mette Satana allo stesso livello di Dio; vi è senza dubbio attualmente una quantità di gente la quale, in questo senso, è “manichea” senza sospettarlo, subisce cioè gli effetti di una “suggestione” delle più perniciose. Questa concezione, infatti, equivale all’affermazione di una dualità principiale radicalmente irriducibile, o, in altri termini, alla negazione dell’Unità suprema che è al di là di tutte le opposizioni e di tutti gli antagonismi; che una negazione del genere sia appannaggio degli aderenti alla “contro-iniziazione” non c’è da stupirsi ed essa può perfino essere sincera, per gente a cui il campo metafisico sia ermeticamente chiuso; ancor più evidente è la necessità che essi hanno di diffondere e di imporre questa concezione, poiché è soltanto così che possono riuscire a farsi passare per ciò che non sono e non possono essere realmente, e cioè per i rappresentanti di qualcosa che potrebbe esser messo in parallelo con la spiritualità ed anche finalmente avere la meglio su di essa.

Questa “spiritualità alla rovescia”, per la verità, è dunque solo una falsa spiritualità, falsa all’estremo limite del concepibile; ma si può anche parlare di falsa spiritualità tutte le volte che, per esempio, lo psichico viene scambiato per lo spirituale, anche senza andare necessariamente fino a questa sovversione totale; perciò l’espressione “spiritualità alla rovescia” è quella che meglio serve a definirla, a condizione naturalmente di spiegare con precisione in che modo va intesa. Ecco cos’è in realtà il “rinnovamento spirituale” di cui taluni, talvolta molto inconsapevolmente, annunciano con insistenza il prossimo avvento, o anche la “nuova èra” in cui si tenta con tutti i mezzi di introdurre l’umanità attuale (1), e che la condizione d’ “attesa” generale, creata mediante la diffusione delle predizioni di cui abbiamo parlato, può contribuire effettivamente ad affrettare.
L’attrazione per il “fenomeno”, già da noi segnalata come uno dei fattori determinanti la confusione tra psichico e spirituale, può ugualmente svolgere a questo proposito una funzione molto importante, poiché è per tramite suo che la maggior parte degli uomini verranno conquistati e ingannati al tempo della “contro-tradizione”, in quanto è detto che i “falsi profeti” che sorgeranno allora “faranno grandi prodigi e cose stupefacenti fino a sedurre, se fosse possibile, gli stessi eletti” (2). E’ soprattutto sotto questo rapporto che le manifestazioni della “metapsichica” e delle diverse forme di “neospiritualismo” possono apparire già come una specie di “prefigurazione” di quanto dovrà verificarsi in seguito, benché ne diano solo una pallida idea; in fondo saranno sempre in gioco le stesse forze sottili inferiori, ma che a quel momento verranno messe in azione con una potenza incomparabilmente maggiore; e quando si vede come la gente sia sempre disposta ad accordare ad occhi chiusi la più completa fiducia a tutte le divagazioni di un semplice “medium”, soltanto perché convalidate da “fenomeni”, come stupirsi se la seduzione dovrà essere pressoché generale? E’ per questa ragione che non si ripeterà mai abbastanza come i “fenomeni”, in sé stessi, non provino assolutamente niente quanto alla verità di una dottrina o d’un qualsiasi insegnamento, e come sia proprio questo il campo per eccellenza della “grande illusione”, ove tutto ciò che appare a certa gente come segno di “spiritualità” può essere sempre simulato e contraffatto dal gioco delle forze inferiori in questione; questo è anche forse il solo caso in cui l’imitazione possa essere veramente perfetta, perché sono esattamente gli stessi “fenomeni”, intesi nel loro significato specifico di apparenze esteriori, che si producono in entrambi i casi: la differenza risiede esclusivamente nella natura delle cause che rispettivamente intervengono in essi; e poiché la gran maggioranza degli uomini è necessariamente incapace di determinare queste cause, la miglior cosa da farsi è in definitiva di non attribuire la benché minima importanza a tutto ciò che è “fenomeno”, anzi di vedervi piuttosto a priori un segno sfavorevole; ma come farlo capire alla mentalità “sperimentale” dei nostri contemporanei, mentalità la quale, dopo esser stata manipolata dal punto di vista “scientistico” dell’ “antitradizione”, diventa finalmente uno dei fattori che possono contribuire nel modo più efficace al successo della “contro-tradizione”?
Il “neospiritualismo”, e la “pseudo-iniziazione” che ne deriva sono una parziale “prefigurazione” della “contro-tradizione” anche da un altro punto di vista: intendiamo riferirci alla già segnalata utilizzazione di elementi autenticamente tradizionali in origine, ma deviati dal loro vero significato e posti in certo qual modo al servizio dell’errore: questa deviazione è in definitiva l’incamminarsi verso il capovolgimento completo che dovrà caratterizzare la “contro-tradizione” (e di cui del resto abbiamo visto un esempio significativo nel rovesciamento intenzionale dei simboli), anche se nella contro-tradizione non sarà soltanto questione di elementi frammentari e dispersi; nell’intenzione dei suoi autori infatti, essa dovrà dare l’illusione di qualcosa di simile o addirittura di equivalente a ciò che costituisce l’integralità di una tradizione vera, con tutte le applicazioni che le sono proprie nei vari campi. E’ da notare, a questo proposito, come la “contro-iniziazione”, pur inventando e diffondendo per i suoi fini tutte le idee moderne caratteristiche dell’ “antitradizione” negativa, sia perfettamente cosciente della falsità di tali idee, e sappia evidentemente anche troppo bene a cosa attenersi; ma ciò sta appunto ad indicare come, nella sua intenzione, questa sia soltanto una fase transitoria e preliminare, in quanto una simile organizzazione di menzogna cosciente non può come tale essere il vero ed unico scopo che essa si propone; tutto ciò è destinato solo a preparare la successiva venuta di qualcos’altro, che a sua volta dovrà apparire come un risultato più “positivo”, e che sarà precisamente la “contro-tradizione”. E’ per questa ragione che, in particolare nelle diverse produzioni di cui è indubbia l’origine o l’ispirazione “contro-iniziatica”, si vede già delinearsi l’idea di un’organizzazione che sarebbe come la contropartita, e appunto perciò la contraffazione, d’una concezione tradizionale come quella del “Sacro Impero”, organizzazione che dovrà essere l’espressione della “contro-tradizione” nell’ordine sociale; ed è anche per questa ragione che l’Anticristo, secondo la terminologia della tradizione indù, potrà esser denominato Chakravartî alla rovescia (3).
Il regno della “contro-tradizione”, in effetti, è, molto esattamente, ciò che è designato come il “regno dell’Anticristo”: questi, qualunque idea si possa averne, è comunque colui che concentrerà e sintetizzerà in sé stesso, in vista di tale opera finale, tute le potenze della “contro-iniziazione”, sia che lo si percepisca come un individuo, sia come una collettività; in un certo senso potrebbe essere ad un tempo l’uno e l’altra, in quanto dovrà esistere una collettività che rappresenti l’”esteriorizzazione” della organizzazione “contro-iniziatica” vera e propria venuta finalmente alla luce del giorno, e dovrà esistere altresì un personaggio, posto a capo di quella collettività, che sia l’espressione più completa e come l’“incarnazione” stessa di quel che essa rappresenterà, non foss’altro che a titolo di “supporto” di tutte quelle influenze malefiche le quali, dopo essersi concentrate in lui, dovranno da lui essere proiettate nel mondo (4). Evidentemente sarà un “impostore” ( significato del termine daggiâl con cui viene abitualmente denominato in arabo), poiché il suo regno non sarà nient’altro che la “grande parodia” per eccellenza, l’imitazione caricaturale e “satanica” di tutto ciò che è veramente tradizionale e spirituale; e tuttavia la sua costituzione sarà tale, se così si può dire, da essergli veramente impossibile non svolgere tale funzione. Certamente non sarà più il “regno della quantità” che era soltanto il culmine della “antitradizione”; al contrario, col pretesto di una falsa “restaurazione spirituale”, sarà una specie di reintroduzione della qualità in tutte le cose, ma di una qualità presa a rovescio del suo valore legittimo e normale (5). Dopo l’ “egualitarismo” dei nostri giorni ci sarà di nuovo una gerarchia invertita, ossia una “contro-gerarchia”, il cui vertice sarà occupato dall’essere che, in realtà, sarà più vicino di chiunque altro a toccare il fondo degli “abissi infernali”.
Quest’essere, anche se apparirà sotto forma di un personaggio determinato, sarà in realtà più un simbolo che un individuo, sarà cioè come la sintesi stessa di tutto il simbolismo invertito in uso presso la “contro-iniziazione”, simbolismo che troverà in lui la sua massima espressione proprio perché in questa funzione non avrà né predecessori né successori; per poter esprimere il falso ad un livello così estremo, egli dovrà essere, per così dire, completamente “falsato” da tutti i punti di vista, cioè come l’incarnazione stessa della falsità (6). Proprio per ciò, nonché per la suddetta estrema opposizione al vero in tutti i suoi aspetti, l’Anticristo può assumere i simboli stessi del Messia, beninteso in senso radicalmente opposto (7); la predominanza attribuita in tali simboli all’aspetto “malefico”, o, più esattamente, la sostituzione di esso a quello “benefico”, per sovversione del doppio significato di tali simboli, costituisce appunto il suo marchio caratteristico. Parimenti potrà e dovrà esserci una strana rassomiglianza tra le designazioni del Messia (Al-Masîh in arabo) e quelle dell’Anticristo Messia (Al-Masîkh) (8); ma queste ultime altro non sono se non una deformazione delle prime, così come difforme viene rappresentato lo stesso Anticristo in tutte le descrizioni più o meno simboliche che se ne danno, cosa anche questa assai significativa. Tali descrizioni, in effetti, insistono soprattutto sulle dissimetrie corporee, il che implica che esse siano il marchio visibile della natura stessa dell’essere cui vengono attribuite, ed effettivamente simili dissimmetrie sono sempre segni di qualche squilibrio interiore; è del resto per questa ragione che tali deformità rappresentano delle “qualificazioni” dal punto di vista iniziatici, così come è facilmente immaginabile che possano essere “qualificazioni” in senso contrario, cioè nei confronti della “contro-iniziazione”. In effetti, dal momento che quest’ultima ha una meta opposta a quella dell’iniziazione, è evidente che il suo cammino procede nel senso di un accrescimento dello squilibrio degli esseri, e il termine ultimo di tale squilibrio è la dissoluzione o la “disintegrazione” di cui abbiamo parlato, l’Anticristo deve evidentemente essere il più vicino possibile a questa “disintegrazione”, sicché la sua individualità, mentre da un lato sarà sviluppata in modo mostruoso, si può dire però già quasi annichilita, tanto da realizzare l’inverso della cancellazione dell’ “io” di fronte al “Sé”, o, in altri termini, da realizzare la confusione nel “caos” invece della fusione nell’Unità principiale; e questo stato, raffigurato dalle stesse difformità e sproporzioni della sua forma corporea, è veramente al limite inferiore delle possibilità del nostro stato individuale, per cui il vertice della “contro-gerarchia” è proprio il posto che gli conviene in quel “mondo rovesciato” che sarà il suo. Del resto, anche dal punto di vista prettamente simbolico, e in quanto rappresentante della “contro-iniziazione”, l’Anticristo non è meno necessariamente difforme: questa in effetti, come dicevamo poco fa, non può essere che una caricatura della tradizione, e chi dice caricatura è come dicesse difformità; se così non fosse non ci sarebbe proprio nessun mezzo esteriore per distinguere la “contro-tradizione” dalla tradizione vera, e bisogna pure, affinché almeno gli “eletti” non siano sedotti; che essa porti in sé stessa il “marchio del demonio”. Per di più, dato che il falso è necessariamente anche “artificiale”, la “controtradizione” non potrà mancare, nonostante tutto, di avere quel carattere “meccanico” che è presente in tutte le produzioni del mondo moderno: essa ne sarà anzi l’ultimo prodotto; ancor più esattamente, vi sarà in essa qualcosa di paragonabile all’automatismo di quei “cadaveri psichici” cui abbiamo accennato in precedenza, e del resto, come questi, essa sarà costituita soltanto di “residui” animati artificialmente e momentaneamente, il che spiega la sua assoluta precarietà; quest’ammasso di “residui”, per così dire galvanizzato da una volontà “infernale”, può certamente dare l’idea più esatta di qualcosa che sia arrivato ai confini stessi della dissoluzione.
Riteniamo che non sia il caso di insistere oltre su tutte queste cose; in fondo sarebbe di scarsa utilità la ricerca particolareggiata di come sarà costituita la “contro-tradizione”, e del resto le precedenti indicazioni di carattere generale sarebbero già quasi sufficienti a chi volesse, per conto proprio, applicarle a punti più specifici, cosa che non rientra nei nostri propositi. Comunque sia, siamo giunti con ciò al termine ultimo dell’azione antitradizionale che deve condurre questo mondo alla sua fine; dopo il regno passeggero della “contro-tradizione” non può più esserci, per arrivare all’ultimo momento del ciclo attuale, che il “raddrizzamento”, il quale, riportando istantaneamente tutte le cose al loro posto normale proprio quando la sovversione sembrava completa, preparerà immediatamente l’ “età dell’oro” del futuro ciclo.
Note
1 – E’ incredibile fino a che punto l’espressione “nuova èra” sia stata in questi ultimi tempi diffusa e ripetuta in tutti gli ambienti, anche con significati apparentemente molto diversi tra loro, ma tutti tendenti, in definitiva, a stabilire la stessa persuasione nell’opinione pubblica.
2 – Matteo, XXIV, 24.
3 – Sul Chakravartî, o “monarca universale”, vedere L’Ésotérisme de Dante, cit., p. 76 e Le Roi du Monde, cit., pp. 17-18 (pp. 22-23 dell’ed. it.). il Chakravartî è letteralmente “colui che fa girare la ruota”, il che implica che sia posto al centro stesso di tutte le cose, mentre al contrario l’Anticristo sarà l’essere più lontano da tale centro; egli pretenderà tuttavia di “far girare la ruota” in senso inverso al movimento ciclico normale (cosa “prefigurata”, del resto inconsciamente, dall’idea moderna del “progresso”), quanro invece, in realtà, qualsiasi cambiamento nella rotazione è impossibile prima del “rovesciamento dei poli”, cioè prima di quel “raddrizzamento” che solo l’intervento del decimo Avatâra potrà operare; ma giust’appunto, se l’Anticristo viene designato così, è proprio perché, a modo suo, egli parodierà la funzione stessa di quell’Avatâra finale, il quale nella tradizione cristiana viene rappresentato come il “secondo avvento del Cristo”.
4 – Lo si può dunque considerare come il capo degli awliyâ esh-Shaytân, e, poiché sarà l’ultimo a svolgere tale funzione, funzione che avrà in lui la sua più importante e manifesta espressione nel mondo, si può dire, secondo la terminologia dell’esoterismo islamico, che egli sarà come il loro “suggello” (khâtem); non è difficile immaginarsi fino a che punto potrà effettivamente spingersi la parodia della tradizione in tutti i suoi aspetti.
5 – La stessa moneta, o ciò che ne farà le veci, avrà di nuovo un carattere qualitativo di questo tipo, in quanto è detto che “nessuno potrà comprare o vendere se non avrà il carattere o il nome della Bestia, o il numero del suo nome” (Apocalisse, XIII, 17); è perciò implicito un uso effettivo dei simboli invertiti della “contro-tradizione”.
6 – Vedasi anche qui l’antitesi del cristo che afferma: “Io sono la Verità”, o di un walî come El-Hallâj che dice del pari: “Anâ el-Haqq”.
7 – “Forse non si è fatto abbastanza caso all’analogia tra la vera e la falsa dottrina; sant’Ippolito, nel suo opuscolo sull’Anticristo, ne dà un esempio memorabile, benché non stupefacente per chi abbia studiato il simbolismo: il Messia e l’Anticristo hanno entrambi il leone per emblema” (P. Vulliaud, La gabbale juive, 2 voll., Paris, 1923, vol. II, p. 373). Dal punto di vista cabalistico, la ragione profonda di ciò risiede nelle considerazioni inerenti alle due facce, luminosa e oscura, di Metatron; è per la stessa ragione che il numero apocalittico 666, il “numero della Bestia”, è anche un numero solare (cfr. Le Roi du Monde, cit., pp. 29-30, pp. 35-36 dell’edizione italiana).
8 – Vi è qui un doppio senso intraducibile: Masîkh può essere preso come una deformazione di Masîh per semplice aggiunta di un punto alla lettera finale; ma in pari tempo questo stesso termine vuol anche dire “difforme”, cosa che esprime appunto il carattere dell’Anticristo.

[Brani dal cap. XXXIX de Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi - ed. Adelphi].

domenica 7 novembre 2010

Massoni: nemici dell'autorità

Prima hanno avallato e finanziato l’Unità d’Italia, ora vogliono dividerla per questioni di convenienza economica

L’unico pensiero che guida le iniziative dei “grembiulini” è il profitto

A un esame superficiale, l’intreccio fra Italia e massoneria, potrebbe apparire assurdo e inestricabile. Prima, quando l’Italia era un’espessione puramente geografica, la Massoneria si diede gran da fare per aiutarla a divenire una nazione; poi, divenuta nazione, si diede ancor maggiore da fare per distruggerla e farla tornare espressione geografica. Ma insomma: che cavolo vogliono, questi col grembiulino? Non lo sanno neanche loro?
Questo potrebbero chiedersi, gli esaminatori superficiali. C’è poi una categoria ancora inferiore agli esaminatori superficiali: quelli che non esaminano per niente, e non sanno che ripetere come pappagalli adulti quello che hanno loro inculcato da pulcini. Per loro, non c’è alcun problema. La Massoneria ha prima liberato l’Italia dalla tirannide straniera, e poi l’ha liberata da quella nazifascista: evviva la libertà! Ma rimettiamo il ciuccetto in bocca a costoro e rivolgiamoci ai superficiali, che almeno pensano!
Considerazione generale: nella realtà non esistono contraddizioni. Se uno ce le vede, deve solo tirare fuori il fazzoletto e pulirsi gli occhiali. Fatto?
La Massoneria non è che la versione iniziatica dell’illuminismo e, come quello, è fondata sull’idolatria della Ragione eretta a divinità. È quindi nemica giurata di ogni autorità fondata su qualcosa di diverso dalla convenienza, e il suo affermarsi fu facilitato dal fatto che ogni autorità del genere (e cioè “i troni e gli altari”) mostrasse per molti versi la corda. ma questo è un altro discorso. Non occorre rievocare il ruolo determinante che le sue logge rivestirono nelle rivoluzioni borghesi di fine Settecento: quella francese e quella americana. Massoni erano gli estensori della parigina Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e i registi della frode con cui essa fu spacciata per approvata dal popolo, e massoni erano i bianchi mascherati da indiani che uscirono dalla loggia di Boston per abbordare la nave del tè e scaricarne le casse in mare. Del tutto ovvio fu quindi il favore che il Grande Oriente di Londra riservò ai primi fautori dell’unità d’Italia. Non che quello fosse travolto da repentino amore per la penisola a forma di stivale: fu che il formarsi di uno Stato italiano avrebbe rappresentato un brutto colpo sia per l’impero degli Absburgo (e le sue dipendenze toscana ed emiliane), sia per il regno napoletano, sia per quello sardo, sia per quello pontificio, che di trono e altare faceva un tutto unico. Peraltro, ci aveva già più volte provato Napoleone (che dello stesso illuminismo rappresentava la versione militare), e gli appassionati ribelli italiani portavano una coccarda dei tre colori che erano stati delle effimere repubbliche francofile e massoniche. Per chi mai avrebbero dovuto “tifare” i fratelli col grembiulino: per il cardinale Ruffo?
Giunti però alla conclusione della prima Guerra Mondiale, con piena soddisfazione dell’autorità massonica, avvenne qualcosa di orribile (dal suo punto di vista). Avvenne che in due nazioni, l’una vincitrice ma tradita dalla pace e l’altra sconfitta ma mai militarmente battuta, lo spirito riprese i suoi diritti e giunsero al potere uomini e idee che, ricollegandosi alle autentiche tradizioni dei due popoli, osarono proclamare la preminenza della fedeltà ad esse sulla gretta “convenienza” economica.
Non che non vi fossero state anche in passato voci in tal senso, rimaste inascoltate. Ma il fatto gravissimo era che, giunte tali “utopie” al potere, non solo non fossero state smentite dall’economia sovrana, ma avessero conseguito successi anche economici così clamorosi da conquistare pacificamente sempre più ampi settori degli stessi popoli di cui la Massoneria pensava di avere il saldo possesso. Ma c’era di peggio: stavolta non si trovavano di fronte i cascami decaduti e svuotati di antiche caste, ma energie giovani e dirompenti, volte verso l’avvenire.
La minaccia di immatura morte degli “immortali principi” percorse come un gelido terrore tutta la Terra ancora retta dagli emissari della Grande Usura, mascherati da “democratici”, tutti insieme, come a un comando unico, percossi dall’orrore che le “dittature” reprimessero gli aneliti di libertà dei rispettivi popoli.
Nessuna rilevanza aveva per loro il fatto che i cattivi tiranni riscotessero punte di consenso popolare che nessuno di loro democratici si era mai sognate, neanche in preda a stupefacenti. Per chi è in malafede, infatti, anche l’evidenza può non avere rilevanza. E fu la grande congiura contro il Tripartito che riuscì a provocare la seconda (e assai peggiore) Guerra Mondiale. Dove mai poteva collocarsi, date le premesse, la massoneria se non fra i più fervidi fautori di quella congiura? E quali altre disposizioni poteva impartire ai propri adepti in Italia, presenti e ben mimetizzati in ogni ambiente, alti comandi militari compresi, se non quelle di boicottare in ogni modo le difese italiane, ponendosi a pieno servizio delle “potenze antifasciste”?
E questo, con assoluta coerenza, essa fece, manovrando ignobili carogne gallonate e poltronizzate, capaci di assassinare a tradimento, con le loro “preziose” informazioni, migliaia di giovani della loro gente mandati volutamente allo sbaraglio. Si tratta degli “articolo 16”, che l’Alighieri avrebbe ficcato senza esitare in Cocito, tra i denti di Satana. Ma mettetevi nei panni e nei grembiulini dei vertici massonici.
Di chi dovevano servirsi, per tale infamante bisogna: forse di galantuomini di specchiate virtù? Se quindi è fuori dubbio che i manutengoli italioti del dollaresco novus ordo seclorum meriterebbero a buon diritto di essere allineati ad ornamento dei bastioni, impalati all’uso turco, è anche certo che le loro alte e fraterne gerarchie si sono sempre comportate con lineare, implacabile coerenza, fedeli ai loro sempre dichiarati principi, senza deviarne neppure di una linea. Non sarebbe il caso che anche noi facessimo altrettanto?
Rutilio Sermonti

Articolo pubblicato su Linea anno XIII numero 225